Ultima volta che ho fatto un viaggio in Nigeria avevo sette anni. Era il 1994 e i miei genitori, emigrati negli Stati Uniti all’inizio degli anni Ottanta, non erano più tornati a casa da allora. Erano impazienti di presentare alla famiglia le loro quattro figlie, tra cui me, la secondogenita. Nella città di Port Harcourt, capitale del Rivers, stato di origine dei miei genitori, le mie sorelle e io siamo state sommerse dagli abbracci di cugini, zie, zii e amici che aspettavano da anni di stringerci, baciarci, darci da mangiare e viziarci – e anche di farci conoscere la nostra “nigerianità”. I miei genitori ci avevano insegnato un po’ di igbo mentre imparavamo a parlare, ma io l’avevo già dimenticato. Fissavo a bocca aperta decine di sconosciuti con il viso scuro e i denti bianchi, mentre mia sorella maggiore, che lo parlava ancora bene, traduceva i nostri scambi. «Da dove vieni?», mi chiedevano. «Dall’America», rispondevo, un po’ confusa. E loro subito a ribattere che non ero americana, ma nigeriana.

In Nigeria potrò anche concedermi il lusso di essere orgogliosamente nera, a differenza degli ambienti bianchi in cui vivo negli Stati Uniti. Ma la maggior parte della mia famiglia allargata in Nigeria non sa che sono gay. E in questo Paese essere apertamente gay è un pericolo reale. Nel 2014 il presidente Goodluck Jonathan firmò la legge che vieta il matrimonio tra persone dello stesso sesso, e da allora le autorità hanno effettuato arresti di massa e si sono girate dall’altra parte mentre i nigeriani sospettati di essere gay subivano atti di violenza. Molte persone accusate di aver violato la legge sono state denunciate per aver pianificato, celebrato o partecipato a matrimoni gay o semplicemente per il loro aspetto queer. La pena prevista in caso di condanna è la reclusione fino a quattordici anni. A poco più di trent’anni mi sono trasferita dal Midwest, dove sono nata e cresciuta, a New York. Ero sfinita ed eccitata allo stesso tempo. Avevo passato anni a negare la mia passione creativa e la mia identità, ma stavo per diventare una scrittrice, e per giunta in una delle città più gay del paese.
Ritorno alle origini
Poco dopo il mio arrivo sono andata al Whitney Museum of American Art e ho visitato To Wander Determined, una mostra di opere dell’artista nigeriana-americana Toyin Ojih Odutola. Uno degli schizzi a carboncino raffigurava la celebrazione del matrimonio di due uomini che univa due immaginari clan aristocratici nigeriani. Per me queste tele erano un portale verso un mondo di audaci possibilità. La piccola bambina queer che è in me è rimasta profondamente colpita; la mia personalità adulta si è radicalizzata. Circa cinque anni dopo quell’esperienza al Whitney, ho deciso che era finalmente giunto il momento di tornare in Nigeria, ma da sola e alle mie condizioni. Sono andata a Lagos, circa 640 chilometri a nord-ovest dello stato di origine dei miei genitori. Con 17,5 milioni di abitanti, è la città più popolosa della Nigeria e dell’Africa, oltre a essere stata la capitale del Paese fino al 1991, quando questo ruolo è stato assegnato ad Abuja.

È una città costiera, delimitata in parte dal Golfo di Guinea e da una grande laguna che forma alcuni tratti panoramici di spiaggia. Lagos è forse conosciuta soprattutto per l’afrobeat, il genere musicale creato e così chiamato dal compianto Fela Kuti, o come ambientazione di molti film di “Nollywood”. Ma la città è diventata anche una delle principali destinazioni africane per i festival: ospita Art X Lagos, la prima fiera d’arte internazionale dell’Africa occidentale, e la Lagos Fashion Week, il principale evento di questo genere nel continente. Mi è sembrata il posto giusto per riprendere confidenza con il Paese e immergermi nella sua scena creativa. Sapevo che, una volta arrivata, non avrei potuto esistere apertamente come persona queer. Non avevo idea di come mi sarei sentita e avevo paura di scoprirlo. Ma sapevo di voler vedere l’arte dei nigeriani in Nigeria.

La vivace scena creativa
Mio cugino Ebuka aveva programmato di unirsi al mio viaggio, che sarebbe durato una settimana. Non lo vedevo da quella prima visita, quasi tre decenni prima, ma mi fidavo di lui (mia madre lo aveva anche ammonito: se mi torcevano anche solo un capello, ne avrebbe pagato lui le conseguenze). Ebuka è molto alto e robusto, con un sorriso ampio quanto il suo viso. Non appena sono atterrata all’aeroporto e ho iniziato a cercarlo, ho avuto la sensazione di trovarmi in un luogo esotico e familiare allo stesso tempo. Le parole nigeriane mi entravano nelle orecchie e mi uscivano dalla bocca mentre cercavo di cogliere il fluire dell’igbo. Quando mi sono trovata di fronte alla prima opera d’arte del viaggio, ho provato un senso di sollievo in tutto il corpo, proprio come mi era successo al Whitney tanti anni prima.
Ebuka e io ci eravamo fermati all’Untitled, una galleria d’arte che sembrava un cubo di cemento malandato, ma con una scultura colorata di una farfalla all’esterno. Era la Giornata internazionale della donna e la galleria ospitava una tavola rotonda associata a una mostra di opere di artiste donne intitolata Split (“Divise”, ndt). Una di loro, Fiyin Koko, è stata così gentile da posare con me per una foto davanti ai suoi dipinti I’m Learning (“Sto imparando”, ndt) e Can You Hear Me? (“Mi senti?”, ndt) In queste opere, due donne che assomigliano all’artista – ma con la pelle blu e i capelli sciolti che sembrano fili di alghe – giocano al telefono senza fili da una tela all’altra. Ciascuna donna tiene un bicchiere di carta vicino all’orecchio e ascolta l’altra, come se le due figure fossero un’unica persona passata e futura.

L’opera che ha avuto il maggiore impatto su di me è stata An Open Garden (“Un giardino aperto”, ndt) di Chigozie Obi, che mostrava una giovane donna seduta all’indietro appoggiata sui gomiti che mostra il dito medio, con le gambe aperte a mostrare mutandine di pizzo rosa, la pancia scoperta sotto un top verde corto e dei rampicanti verdi le salgono intorno alle cosce. Sul dipinto campeggiava la scritta in igbo “Meche Okpa Gi, I Bu Nwanyi!”. Mio cugino è rimasto scandalizzato, ma io ho urlato di gioia rendendomi conto che riuscivo a leggere, pronunciare e tradurre senza nessun aiuto “Chiudi le gambe, sei una donna!”.
Mi sono tornati in mente i ricordi delle tante volte in cui mi era stato detto di comportarmi in modo consono al mio sesso e alle norme della cultura nigeriana. Ridevo tra me e me, chiedendomi se i miei genitori sarebbero stati orgogliosi di sapere che la loro seconda figlia non era del tutto incapace di parlare l’igbo, o se sarebbero stati mortificati scoprendo che la ragione di questa rivelazione linguistica era una dimostrazione di resistenza sessuale. Ho deciso che la risposta non aveva importanza.

Un tuffo nell’arte
Uno dei posti migliori per vedere opere d’arte a Lagos è la Nike Art Gallery, la più grande galleria privata del Paese. Le pareti erano interamente tappezzate di dipinti, schizzi, sculture e opere con tecniche miste, collocati senza un criterio apparente anche su parti del pavimento. Era una delle collezioni più eterogenee che avessi mai visto, in un numero di stili pari a quello delle opere. Ho visto riproduzioni del kobo, una moneta nigeriana che si trova di rado in circolazione. C’erano numerosi dipinti di persone con foulard e abiti tradizionali nigeriani avvolti intorno alla testa e al corpo, ritratte mentre tenevano in braccio dei bambini, vendevano prodotti nei mercati, sorridevano, piangevano, ridevano.
Alcune parti del corpo, come occhi, glutei e pance, erano esagerate in forme assurde. Alcuni pezzi erano monocromatici, eseguiti interamente in tonalità di giallo e di blu; altri erano un’esplosione di molteplici colori. Ebuka e io ci siamo fermati anche alla Tiwani Contemporary Gallery, filiale della casa d’arte londinese nota per esporre artisti africani o di origine africana. La parola yoruba “tiwani” significa pressappoco “ci appartiene” (gran parte degli abitanti di Lagos parla yoruba).
La nuova sede era stata aperta il mese prima della mia visita, e per la mostra inaugurale era stata scelta l’opera dell’artista anglo-nigeriana Joy Labinjo intitolata Full Ground: una serie di autoritratti di nudo ricavati da selfie, dipinti di grandi dimensioni che occupavano le pareti bianche della sala fino agli alti soffitti. Le cornici racchiudevano ogni curva, rotolo e “imperfezione” del corpo dell’artista, senza alcun ritocco. La mostra mi ha ricordato una conversazione che avevo sentito al mio hotel, la Bogobiri House. La struttura, situata nell’elegante quartiere di Ikoyi, ospita anche eventi nella galleria d’arte adiacente. All’inizio della settimana avevo avuto occasione di partecipare a uno di questi, in cui Tola Akerele, designer d’interni e comproprietaria della Bogobiri House, aveva detto: «Mettetevi in gioco, credete in voi stessi. Non potrete essere soddisfatti se non tirerete fuori quello che avete dentro».

Dai fast food ai bistrò
Ho anche trovato il tempo di mangiare. Molto. A Lagos i viaggiatori possono scegliere fast food che servono piatti tradizionali in stile tavola calda. Oppure possono andare in bistrò contemporanei che servono Espresso Martini o in ristoranti con menu a prezzo fisso che propongono una cucina nigeriana di alto livello. Io ho optato per un mix di tutti e tre. Ebuka e io siamo andati per il brunch da Calabar Aroma, un locale informale nel quartiere di Lekki Leisure che serve piatti classici come riso jollof e capra o riso bianco e stufato di pomodoro. All’Atmosphère Rooftop, un altro bar e ristorante di Lekki, abbiamo mangiato un pesce gatto intero, cotto alla griglia e guarnito con peperoni, cipolle e verdure.
Nei giorni seguenti sono stata felice di trovare l’ofe, una zuppa che di solito viene abbinata a un amido tenero come manioca o platano per aiutare ad assorbire il brodo. Io scelgo sempre il mio preferito: l’igname pestato. Uno dei nostri pasti migliori è stato quello al Nok by Alara, ristorante e boutique di lifestyle che si trova sempre a Lekki. Abbiamo mangiato le frittelle di platano – nessun vero ristorante nigeriano è completo senza il platano – con ketchup piccante fatto in casa e un’insalata verde guarnita con pollo alla griglia, crostini di semi di carrube e condimento alla senape. La portata principale è stata il “pesce arancione”, un pesce persico d’altura su curry piccante al pomodoro, guarnito con spaghetti fritti.
Una sera abbiamo concluso la giornata al Sailors Lounge, un bar a due piani sull’acqua con una terrazza immensa decorata con fili di luci. Una cameriera in uniforme da marinaio ci ha servito carne di capra e peperoni misti, oltre a pinte di Heineken e all’Orijin, un drink a base di erbe, frutta e liquori africani. Abbiamo brindato guardando le luci della città che si estendeva sotto di noi.

Qualche giorno prima della fine del viaggio ho iniziato a sentire nostalgia di casa. Non solo per la mia casa in senso letterale, ma anche per la mia identità libera: la mia femminilità, il mio essere queer, che a Lagos non potevo manifestare apertamente. Desideravo la solitudine. Quando sono entrata all’Art Twenty One, una galleria d’arte nel quartiere elegante di Victoria Island, sono stata felice di trovarla deserta, a parte un unico dipendente.
Era in corso la mostra personale dell’artista nigeriano a tecnica mista Olu Amoda intitolata “Carte Blanche”. Sculture circolari realizzate con pezzi di metallo di scarto parevano fissarmi dalle pareti bianche. In un’altra sala c’era una scultura composta da due grandi cerchi metallici collegati da un sottile filo rosso: uno era appeso alla parete, l’altro era appoggiato sul pavimento. Tutt’intorno erano disposte foglie morte mescolate a tappi di Champagne. Altri fili rossi si insinuavano tra le foglie, intrecciati a ritagli metallici a forma di animali e uccelli.
Non ho potuto fare a meno di associare i fili rossi al sangue o, piuttosto, ai legami di sangue. Ho riflettuto sulla differenza tra la mia educazione americana e il mio rapporto con una patria da cui mi sentivo estranea, un rapporto che mi era sempre sembrato delicato e sottile come quei fili. Era difficile iniziare il processo per cui potevo (forse) innamorarmi di questo Paese quando c’erano così tante barriere che impedivano di creare e mantenere un legame sano. A quel punto stavo appena iniziando ad apprezzare me stessa come donna, persona queer e scrittrice. Nascondere la mia omosessualità, almeno a Lagos, sembrava un piccolo sacrificio rispetto ad alcune realtà che i nigeriani devono affrontare.
Provavo un privilegio scomodo, che i miei genitori avevano spesso fatto notare a me e alle mie sorelle mentre crescevamo. Ci rimproveravano perché noi ci lamentavamo delle libertà di espressione e di identità, quando per la nostra famiglia nigeriana l’elettricità e l’acqua non erano sempre garantite. Non sapevo come sarebbe stata la mia vita negli anni a venire, ma sapevo di cosa avevo bisogno: di innalzarmi grazie all’arte ed esserne assorbita il più possibile.

Sosta gastronomica sulla spiaggia di Lekki Leisure
Ho trascorso parte del mio ultimo giorno facendo una passeggiata con Ebuka e la sua fidanzata Berta lungo la spiaggia di Lekki Leisure, un’evasione tranquilla dalla frenesia della città. Abbiamo osservato la gente che prendeva il sole sui lettini nelle cabañas e ho fatto una passeggiata a cavallo con una guida. Quella sera mi sono concessa una cena di otto portate all’Ìtàn Test Kitchen (“ìtàn” significa “storia” in yoruba). In seguito – a luglio – il ristorante ha chiuso quando l’edificio è stato venduto; lo chef Michael Elégbèdé sta cercando una nuova sede. Una dozzina di commensali erano seduti tutti insieme a un tavolo di legno a forma di albero. Guardavo i miei compagni di tavolo, tutti vestiti in modo elegante: bretelle di cuoio marrone, ballerine in pelle di alligatore.
Poteva essere una scena newyorkese, ma era anche decisamente nigeriana. Ogni portata aveva un tema corrispondente a una diversa festa nigeriana, come Agemo, che celebra i bambini. I piatti erano raffinatissimi: all’interno di un guscio di lumaca vuoto c’era un pezzo di igname leggermente pastellato, con semi di carrube nere fermentati modellati a forma di uova di pesce. Un altro piatto aveva sgombri fritti conditi con peperoni piccanti. Mentre sorseggiavo il vino, ho ripensato a un fotografo queer di nome Ade che avevo incontrato quel giorno.

Ci eravamo visti per bere una birra e mangiare suya, spiedini di manzo o pollo molti conditi, e quell’incontro è stato di gran lunga la parte migliore del viaggio. Eravamo entrambi molto attenti all’ambiente circostante; ci guardavamo in giro in continuazione per assicurarci che nessuno ci guardasse troppo a lungo. Ade mi ha detto che viveva ancora con i suoi genitori e che, anche se non aveva fatto coming out con loro, era abbastanza sicuro che sua madre e suo padre sapessero che era gay. Quando gli ho raccontato del mio coming out con i miei genitori nigeriani altrettanto tradizionalisti, è visibilmente trasalito. Dopo aver compiuto vent’anni, Ade aveva dedicato alcuni anni a costruirsi una carriera come fotografo e sperava di ottenere una borsa di studio per trasferirsi a New York.
Quando ci siamo salutati, gli ho augurato di trovare il tipo di libertà che avevo sperimentato di recente. Nessun altro momento del mio viaggio è stato così speciale come quell’ora trascorsa con lui. Un’esperienza che ha sottolineato il mio bisogno – e il mio diritto – di vivere nel modo più libero e più apertamente queer possibile. Non avrei mai pensato che il mio ritorno in Nigeria sarebbe stato all’insegna dell’affermazione, del potere e dell’amore per me stessa. Questi concetti erano in totale contrasto con ciò che il Paese di origine dei miei genitori rappresentava per me da molto tempo. Osservando queste opere d’arte, ho ritrovato una scintilla d’amore per un luogo di cui avevo sempre avuto paura. Ho scoperto che lì c’era una grande vitalità e una forte determinazione a vivere bene.
Dove dormire
Bogobiri House
Questo hotel di 16 camere è un punto di ritrovo dei creativi del quartiere di Ikoyi.
16×16
Ognuna delle 10 camere di questa struttura ricettiva a Victoria Island è stata disegnata da un artista diverso.
Dove mangiare e bere
Calabar Aroma
Andate in questo locale tranquillo per gustare la cucina tradizionale nigeriana.
Nok by Alara
Questo ristorante africano contemporaneo è guidato dallo chef di origine senegalese Pierre Thiam.
Atmosphère Rooftop
Unitevi ai residenti di Lekki
Beach per un drink all’aperto ben oltre il tramonto.
Sailors Lounge
Un vivace cocktail bar con vista sulla Laguna di Lagos.
Cosa fare
Art Twenty One
In questo spazio espositivo di Victoria Island si possono ammirare mostre personali di figure di spicco quali l’artista multidisciplinare Tejumola Butler Adenuga.
Nike Art Gallery
La più grande galleria privata del paese fa parte della Nike Art Foundation, fondata dall’artista tessile Nike Monica Okundaye.
Tiwani Contemporary
Questa filiale della galleria londinese espone artisti di tutta la diaspora africana.
Untitled
Questa galleria e spazio per eventi di Ikoyi invita spesso i creativi a tenere sessioni in studio e conferenze. – Elizabeth Cantrell –