Correre in montagna è difficile – non è mai così semplice e divertente come potrebbe sembrare quando lo si ricorda seduti comodamente sul divano. I pensieri ricorrenti sono sempre gli stessi. Com’è possibile che la vetta sia ancora così lontana? È così arduo per tutti? Dovrei forse rallentare e camminare per un po’, in modo che quando ripartirò potrò raggiungere la vetta in un unico, ininterrotto slancio di grazia e velocità?
Quando faccio trail running da sola, queste domande mi si accavallano nella mente fino a quando, all’improvviso, mi ritrovo in cima e ripenso alle mie preoccupazioni come da una grande distanza. Però mentre affrontavo il ripido sentiero roccioso della Djouce Mountain – una delle vette più accessibili nella catena dei Wicklow in Irlanda ma, con i suoi 725 metri, comunque non una passeggiata –, mi sono resa conto che non ero assalita dai soliti dubbi. Invece mi guardavo intorno e osservavo le altre persone del mio gruppo.
Trail running: una settimana di corsa in Irlanda
Alte e con le gambe lunghe o dalla corporatura minuta, con i capelli corti o le trecce bionde, erano tutte runner esperte tra i quaranta e i sessant’anni che si erano iscritte a un tour di una settimana in Irlanda con Run Wild Retreats. Questo tour operator organizza viaggi di corsa per sole donne in paesaggi molto diversi tra loro, dai parchi nazionali Moab (nello Utah) e Banff (in Canada) al Bhutan e al Perù. Il nostro itinerario ci avrebbe portato dalla parte orientale del Paese, più secca anche se comunque paludosa, fino alle montagne nebbiose del sud-ovest, con molte ore di corsa ogni giorno.
I pantaloncini e le canotte a colori vivaci e gli ampi sorrisi del mio gruppo creavano un’immagine di forte contrasto sullo sfondo dei pendii di boscaglia e cespugli di erica di un verde intenso pronto a sfociare nella famosa fioritura viola. Queste donne facevano sembrare la salita divertente e, ascoltando il rumore regolare dei loro piedi sulla ghiaia, è stato facile adattare il mio passo al ritmo collettivo.

Dalla vetta della Djouce Mountain al Guinness Lake
Quando finalmente abbiamo raggiunto la vetta della Djouce Mountain, ci siamo fermate a scattare selfie e a guardare indietro al tragitto compiuto. Costellato di ginestre spinose dai fiori gialli, il sentiero scendeva verso il Lough Tay, chiamato anche Guinness Lake perché la sua superficie liscia e scura orlata di sabbia bianca fa pensare a una pinta della rinomata birra irlandese. Ma poi ci siamo rimesse in cammino: avevamo ancora circa sei chilometri da percorrere.
Mentre scendevamo dall’altro versante, una figura minuta ci ha superato con la facilità dell’acqua che scorre in discesa. Jen Horn, avvocato e madre di tre figli, nonché clarinettista di formazione classica, correva per la prima volta da un anno e mezzo dopo essersi ripresa da un grave infortunio. Ci aveva detto che correre in montagna era “la sua isola felice” – e me ne rendevo conto osservandola mentre affrontava il sentiero roccioso senza sforzo, correndo verso le runner che ci aspettavano dopo aver scelto il tragitto in pianura, meno faticoso.
Oltre la fatica
Ho ripensato a quello che Jen aveva detto sul lasciarsi guidare dalla forza di gravità – e poi ho provato a farlo anch’io. Mi sembrava quasi di danzare mentre mi facevo strada tra le pietre, scendendo a zig zag fino a fermarmi vicino a una coppia di pecore che pascolava tranquillamente sull’erba soffice. Il vento fresco sul viso era esaltante. Mi ero ispirata alla gioia di Jen, le avevo consentito di guidare la mia, e in questo modo il mio mondo si era ampliato. Nonostante corressi da tre o quattro anni, le implicazioni sociali di questo sport erano nuove per me.
Sono cresciuta come figlia unica di una famiglia riservata, nata secchiona da due professori secchioni che tendevano a trovare la vita all’aperto troppo fredda o troppo calda, con troppo vento o troppa luce. Dopo aver trascorso gran parte della fase iniziale della pandemia facendo trekking in Colorado, mi ero trasferita a Roma, dove avevo vissuto nelle condizioni più severe del lockdown italiano, che spesso mi impedivano di uscire dalla città o persino dal mio quartiere. Avevo iniziato a correre per cercare di recuperare l’esaltante sensazione delle gambe stanche e del cuore pieno di gioia che provavo alla fine di un trekking lungo e, con mia grande sorpresa, avevo scoperto che mi piaceva molto.

La scoperta di un nuovo ritmo
Correre era un momento in cui potevo concentrarmi sul mio corpo e sul mio respiro; era un modo per sciogliere i nodi mentali e scaricare le mie ansie. Amavo la consapevolezza della necessità di respirare, la sensazione della strada o del sentiero sotto i piedi, l’appetito sfrenato alla fine della corsa. Era qualcosa che facevo per me stessa, sempre da sola, perché non avevo nessuno con cui correre – forse anche perché pensavo di farlo nel modo sbagliato, in cattiva forma e non con sufficiente dedizione. Ma via via che la mia routine diventava più regolare, a volte mi chiedevo se correre da sola non fosse più un modo per sfuggire alla mia vita abitudinaria, diventando però un’altra abitudine.
Talvolta, mentre correvo sotto la pioggia battente o nella calura soffocante, mi ritrovavo a pensare che sarebbe stato bello avere qualcuno con cui parlare, una distrazione o una compagnia. I Run Wild Retreats sono apparsi tra i risultati della mia ricerca proprio al momento giusto, con la loro offerta di percorsi di trail running in Paesi stranieri, ma anche di uno spirito di cameratismo e un gruppo di persone con cui cenare alla fine della giornata.
Correre per ritrovarsi: storie di rinascita
Nel suo memoir L’arte di correre, lo scrittore giapponese Haruki Murakami afferma che, secondo lui, scrivere con sincerità della corsa e scrivere con sincerità di se stesso sono davvero la stessa cosa. Il primo giorno del nostro ritiro ho imparato che parlare della corsa può anche essere una sorta di pretesto per condividere ciò che ci sta più a cuore. Per la nostra riunione introduttiva, la nostra affabile capogruppo Jan Curl – esperta istruttrice di fitness sulla sessantina che era passata da essere una partecipante di Run Wild a guidare i ritiri – ci ha messe tutte in cerchio (eravamo in 12), invitandoci a condividere i desideri e le paure che ci avevano indotto a fare questo viaggio.
Una donna ha raccontato di aver seguito il consiglio di un’amica in un centro di disintossicazione alla fine del suo percorso di guarigione dall’alcolismo: avere un nuovo modo di occupare il corpo l’aveva tenuta lontana dalle vecchie tentazioni. Altre avevano partecipato a gare di corsa quando erano più giovani, ma avevano scoperto che era molto più piacevole correre per la propria soddisfazione personale piuttosto che per l’approvazione degli altri. Per qualcuna la corsa era un modo per riprendersi da una malattia o da un divorzio, mentre altre partecipanti riprendevano a correre con un nuovo atteggiamento orientato al benessere dopo aver subito limitazioni fisiche a causa di infortuni.

L’esperienza di Run Wild Retreats
È emerso chiaramente che esistono tanti motivi diversi per correre quanti sono i corpi che possono farlo. Questa è l’idea centrale di Run Wild Retreats: la fondatrice Elinor Fish sottolinea quanto sia importante la consapevolezza, piuttosto che le imprese di forza e resistenza. Da sempre appassionata di gare di trail running, Fish aveva notato una dinamica diversa quando guidava ritiri di corsa per sole donne. «Le donne devono gestire maggiori esigenze in termini di tempo ed energia», mi ha spiegato. «Ma abbiamo molti punti in comune che ci aiutano a comprenderci tra noi e a sentirci in sintonia».
Un osservatore che avesse guardato le nostre prime incursioni nella Glendalough Valley, un’ora a sud di Dublino nel Wicklow Mountains National Park, avrebbe visto un gruppo di runner rilassato e allegro, con molte personalità individuali. Mentre salivamo tra i boschi lungo lo Spinc Loop verso una vista da sogno con una cascata gorgogliante, cercavo di tenere il passo da gazzella della nostra guida, Nicola Cleary, un’irlandese con le gambe lunghe, per chiederle com’era per lei correre nel suo Paese.

Tra cervi sika e cocktail di elettroliti
Ci trovavamo su una vecchia strada costruita per l’attività mineraria e l’industria del legname, e stavamo correndo su passerelle di legno sopra la torbiera, quando abbiamo visto una fila di cervi sika dalle corna vellutate che pascolavano lungo il pendio. Ma è stato bello anche tornare indietro dalle altre e unirci alla loro allegra conversazione su figli al college, partner incontrati nel posto di lavoro, staffette, maratone e ultramaratone. Una delle mie posizioni preferite era quella al fianco di quattro texane estroverse – simpaticissime e sempre pronte alla risata – provenienti dalla stessa città vicino a Houston.
Avevano cresciuto i figli insieme, avevano corso insieme la loro prima mezza maratona con costumi fatti in casa di tulle e paillettes e ora partecipavano insieme a viaggi avventurosi in giro per il mondo. Con i loro capelli lunghi e le figure snelle, avrebbero potuto essere un gruppo di frivole amiche del liceo. In questo senso, il nostro gruppo di runner era una sorta di cocktail party mobile, con acqua arricchita di elettroliti al posto di drink alcolici: potevamo socializzare cercando la conversazione che più si adattava ai nostri interessi.
Sulle orme della Wild Atlantic Way
Quando abbiamo raggiunto la fine dello Spinc Loop, abbiamo scoperto che una volta i minatori facevano lo stesso percorso, camminando fino al villaggio di Glendalough prima di iniziare una faticosa giornata di lavoro. Tutte noi abbiamo avuto la stessa reazione: stupore, meraviglia e gratitudine per il fatto che, invece di dover percorrere chilometri a piedi per tornare in città, potevamo semplicemente prendere un autobus per raggiungere un posto dove goderci un bel panino al formaggio e una limonata ghiacciata, cosa che abbiamo fatto immediatamente. Dopo il tempo caldo e soleggiato che avevamo trovato a sorpresa a Wicklow, desideravo la nebbiolina e l’atmosfera suggestiva che mi aspettavo di trovare in Irlanda.
Sono stata accontentata nella nostra tappa successiva, il Falls Hotel & Spa a Ennistymon, sulla costa occidentale. Mi sono svegliata presto per partecipare a una corsa lungo un tratto particolarmente scenografico della Wild Atlantic Way, una strada costiera di 2.500 chilometri che tocca antichi monasteri e castelli e da cui si scorgono in lontananza isole rocciose. Siamo arrivate alle famose Cliffs of Moher in una nuvola fitta e piacevolmente fredda. Quasi non riuscivo a vedere altro che la schiena di chi correva davanti a me, le delicate orchidee bianche e i soffici ciuffi di armeria marittima che costeggiavano il sentiero e qualche occasionale mucca rossiccia che allattava un vitello addormentato.

Il silenzio delle scogliere
Abbiamo corso per due ore tra andata e ritorno lungo una stretta strada di terra battuta, con il rombo del mare accanto a noi. Ma al ritorno la nebbia ha iniziato a sollevarsi e finalmente abbiamo potuto ammirare il paesaggio che avevamo attraversato di corsa: il bordo delle maestose scogliere dove si infrangevano le onde, con i gabbiani laggiù in basso, piccolissimi e simili a formiche bianche. Felici di aver finalmente visto questo famoso sito, abbiamo scattato foto e selfie a pochi metri di distanza dallo strapiombo. Ma il paesaggio che ho amato di più doveva ancora arrivare.
Dopo una sosta sotto una lieve pioggerellina a Lahinch, dove sono entrata alla Hugo’s Bakery e ho preso un’ottima focaccia farcita con formaggio fresco di capra e verdure, abbiamo preso un traghetto e attraversato lo stretto tra la contea di Clare e quella di Kerry. Poi abbiamo raggiunto in auto il Killarney National Park a sud, una Riserva della Biosfera dell’Unesco che ospita l’unico branco di cervi autoctoni della terraferma. Il Lake Hotel, dove alloggiavamo, si affacciava su una vista sensazionale. Al mattino presto passeggiavo lungo il Lough Leane, avvistando uccelli canori che svolazzavano intorno a una piccola e pittoresca torre di pietra in rovina.
Tra pioggia e pascoli
La nostra prima corsa a Killarney abbinava il verde intenso del giorno prima con le ripide pendenze delle nostre uscite precedenti. Abbiamo corso lungo la spettacolare strada che si snoda attraverso il Gap of Dunloe, con le curve strette che scompaiono alla vista in mezzo alle montagne. Abbiamo attraversato splendidi pascoli rigogliosi, dove abbiamo incrociato pecore striate con le tinte viola, arancione, rosso e blu che gli allevatori usano per identificarle mentre vagano e si mescolano su lunghe distanze. Ogni tanto venivamo sorpassate da un calesse cigolante trainato da cavalli che trasportava i turisti, una tradizione iniziata dopo il 1860, quando la regina Vittoria visitò l’Irlanda e il tour del Paese divenne di gran moda tra i viaggiatori inglesi più navigati. A metà strada ha iniziato a piovigginare, poi a diluviare, il che avrebbe potuto facilmente compromettere il nostro umore collettivo.
Ci stavamo inzuppando tutte. Ho pensato di cercare riparo sotto una roccia, ma quando mi sono avvicinata ho visto che lo spazio sotto la sporgenza era già occupato da una pecora umida, con il suo agnello rannicchiato sotto di essa. I due animali mi hanno guardato con un misto di possessività e sospetto. Poi la nostra guida locale, Catriona Doolan, ci ha spronato ad andare avanti e ci siamo riprese. Kristine Self, un’ultramaratoneta canadese che si era posta l’obiettivo di correre almeno 16 chilometri al giorno – e per questo spesso faceva delle corse supplementari prima e dopo le nostre uscite di gruppo – si è stretta la coulisse della giacca a vento e si è lanciata sulla salita, dandoci coraggio.
Tempo di relax a Killarney
Abbiamo corso verso una capanna di pietra abbandonata, dove ci siamo raggruppate sotto un vecchio albero, ridendo per aver finalmente trovato il clima estivo irlandese degli stereotipi. Dopo aver stretto i lacci delle scarpe, abbiamo continuato a correre fino a un caratteristico caffè in un cottage storico, dove ci siamo tirate su con cioccolata calda e caffè. Quando siamo tornate all’autobus, correndo attraverso proprietà tranquille e boschi silenziosi, avevamo accumulato circa 16 chilometri. Più tardi, nella Spa at Muckross, situata in una tenuta che ospitò la regina Vittoria nel 1861, mi sono immersa in una vasca idromassaggio e mi sono fatta fare un sapiente massaggio che ha rimosso ogni traccia di stanchezza dai polpacci doloranti. Quella sera, sedute a cena nell’incantevole Garden Bar del Killarney Park Hotel, ci siamo sentite come eroi di guerra al ritorno a casa, anche se avevamo combattuto solo contro gli elementi atmosferici.

Oltre i propri limiti
Alla fine della settimana avevo corso per oltre 80 chilometri e avevo scoperto di essere in grado di fare molto più di quanto pensassi. Potevo correre per sei giorni di fila, e fare un’altra corsa breve anche dopo aver terminato una lunga. Ma le lezioni più preziose sono state quelle delle mie compagne, che mi hanno insegnato cose che non sapevo nemmeno di non sapere. Kristine mi ha mostrato come preparare correttamente il mio kit di idratazione, in modo che lo zaino non facesse rumore di liquidi in movimento a ogni passo. Kirstin Shrom-Rhoads, ex direttrice di un campo estivo nel Maryland, ha notato cosa non andava bene nella mia andatura e mi ha suggerito alcuni esercizi. Ho ricevuto consigli sui viaggi da fare, sui luoghi in cui andare a correre, sulle gare che avrei potuto fare senza un eccessivo allenamento supplementare.
L’attenzione e la considerazione che mostravano nei miei confronti – e tra di loro – riassumevano una certa etica che ho ritrovato in ogni corsa: eravamo un gruppo libero che si sosteneva a vicenda nei percorsi individuali, aiutandosi a muoversi con maggiore libertà e gioia. Quando, sull’autobus di ritorno a Dublino, abbiamo iniziato a comporre spontaneamente dei limerick (i tipici componimenti umoristici in versi irlandesi, NdT) sulle nostre avventure, ho capito che gli sforzi e il supporto reciproco ci avevano unito e che saremmo rimaste in contatto, condividendo foto e consigli, anche molto tempo dopo essere salite sui nostri aerei per destinazioni diverse.
Correre come stile di vita
Quando ho fatto il check-in nel signorile Westbury Hotel, tra tessuti lussuosi, rifiniture di ottone lucido e clienti che prendevano il tè nella lobby, mi sono resa conto di essere tornata alla civiltà. Il pavimento in marmo riscaldato nel bagno della mia suite ha lenito i miei piedi doloranti. Mi sono seduta in poltrona e ho bevuto una tazza di tè. E poi, dopo aver finalmente raggiunto il massimo comfort, ho ceduto alla tentazione di guardare le foto che avevo scattato durante le nostre corse. Immagine dopo immagine, corpi gioiosi sfrecciavano attraverso panorami mozzafiato, piccole figure con le braccia alzate in segno di trionfo.
Ho pensato a quanto sia più bello un paesaggio in cui c’è un essere umano a dare l’idea delle proporzioni: da sola, una scogliera era semplicemente alta, ma con una fila di runner lungo il margine potevo improvvisamente sentire la tensione, l’euforia, il modo in cui il corpo rasenta il pericolo per emergere integro e vincente. Guardando i volti di quelle donne, sono rimasta colpita da quanto sembravano felici, nonostante la stanchezza. Mi sono ricordata che quel giorno non ero ancora andata a correre, anche se ero passata davanti a un parco dall’aspetto incantevole, di quelli che devono essere esplorati a un ritmo più veloce della camminata. Pensando ai miei modelli di riferimento, le compagne scattanti a cui mi ero affezionata nell’ultima settimana, mi sono allacciata le scarpe da corsa e sono uscita.