L’umidità asiatica si è trasformata da giorni in pioggerellina incessante e “sommerge” l’elegante Fubon Xinyi A 25, firmata da Renzo Piano, in una fitta foschia che lascia libera soltanto la cima della splendente torre di vetro. La scorgo negli stracci di nebulosa alla mia destra. Sicuramente, dall’ottantanovesimo piano, a 380 metri d’altezza dall’ingresso, la prospettiva sul distretto di Xinyi a Taipei cambia radicalmente, soprattutto se per arrivarci ci hai messo appena trentasette secondi, alla velocità di 60 chilometri orari, perché l’ascensore qui corre come un razzo. Benvenuti sul Taipei 101, grattacielo simbolo che da vent’anni – come un totem a forma di bambù – segna lo skyline della capitale di Taiwan con i suoi 509 metri di altezza.
Non fosse per l’effetto ottico delle nubi e la gigantesca sfera di acciaio dorato, che troneggia tra l’87esimo e il 92esimo piano, le vertigini prenderebbero il sopravvento sul panorama punteggiato di palazzi avveniristici, colline, aree verdi, case basse, templi e montagne scure all’orizzonte. Ma la stabilità del 101 è garantita dalla celebre “palla” formata da 41 dischi per 660 tonnellate di peso. Stratosferica visione, per dirla letteralmente: assomiglia a un satellite, è ancorata con cavi d’acciaio, molle e strumenti vari, sostenuta da otto pompe idrauliche di tecnologia italo-franco-giapponese, ed è pronta a resistere a terremoti, tifoni e uragani stimati fino a 200 chilometri orari di potenza. Unico obiettivo alla nascita: mantenere l’equilibrio nonostante le calamità. È già accaduto nell’aprile 2024 con il sisma di magnitudo 7.4 che ha colpito l’isola senza i tragici esisti (nel 1999 un terremoto con 7.6 di magnitudo falciò 2.400 persone) e i video lo documentano. Un prodigio? Niente affatto, quanto piuttosto la cosiddetta “forza di smorzamento” che permette al grattacielo (progettato dallo studio di architettura C.Y.Lee & Partners sotto la guida di Chung Ping Wang) così equipaggiato una capacità oscillatoria in grado di ammortizzare le scosse e i forti venti.

Fatta salva la mia semplicistica spiegazione scientifica (di cui mi scuso con chi legge), vi assicuro che l’esperienza dell’ascesa al 101 promette emozioni e una vista su Taipei a 360 gradi. Evenienza altrimenti impossibile in una metropoli che conta più o meno due milioni e mezzo di abitanti, a cui andrebbero aggiunti quelli in continua espansione di Nuova Taipei, l’area (un’addizione di distretti ed ex villaggi rurali) che si snoda lungo il bacino di Taipei, sulla costa settentrionale dell’isola già conosciuta come Formosa, dal portoghese “bella”. E che Taiwan sia bella non v’è alcun dubbio. Per accertarvene personalmente, concedendovi almeno una settimana di tempo – la compagnia privata internazionale taiwanese Eva Air offre una inedita opportunità: il collegamento diretto giornaliero da Milano Malpensa su Taipei a partire dal prossimo 16 gennaio. Il volo dura circa tredici ore, ma il confort dei nuovi aeromobili non vi deluderà.
Ed ecco un altro “ponte” verso Oriente per favorire i già fiorenti scambi commerciali (Taiwan è una superpotenza tecnologica, plastico-chimica e nel campo dei semiconduttori), ma soprattutto per aprire al turismo leisure italiano una terra ancora poco conosciuta che nei suoi 36mila chilometri quadrati ospita 24 milioni di persone, una sequenza di città dal passato nipponico (i giapponesi hanno dominato dal 1895 al 1945) e dal presente cino-dissidente, soprattutto dopo le elezioni democratiche presidenziali del 2024. Mi spiego in un flash: Taiwan è governata dalla Repubblica di Cina (detta anche Cina nazionalista) indipendente dalla Repubblica Popolare Cinese che ha sul continente asiatico la sua base ideologico-politica. Centottanta chilometri di distanza una natura marina rigogliosa (sulla costa orientale) hanno vieppiù allontanato Taipei, giovane democratica, dalla sua consorella Pechino.

L’atmosfera cinese diffonde però i suoi profumi e i suoi vapori alimentari nell’inconfondibile caos dei numerosi night market di Taipei e dell’intera Taiwan. Lo Shilin Night Market è forse quello che più di ogni altro incarna lo spirito dello street food ante litteram. Si trova nel distretto di Shilin,proprio lì dove un tempo era il molo del fiume Keelung da dove venivano spedite le merci su altri porti dell’isola, ed è un vero un labirinto di bancarelle, negozi, baracchini, carretti, verande con grill e così via. Inutile dire che qui si trova di tutto e si può mangiare ogni cosa. I taiwanesi, poco inclini a cucinare in casa (visto il caldo-umido che li opprime per gran parte dell’anno), cenano e incontrano gli amici nei diversi night market con assiduità, come una volta accadeva intorno ai templi buddisti e taoisti della città. Il mercato di Shilin – che occupa il quartiere tra Dadong Road, Danan Road, Wenlin Road e Jihua Road – è lì dal 1913 e da allora propone e conta oltre cinquecento punti food.

Tra le mille prelibatezze (ma ci sono alcuni sapori per noi intollerabili) che si possono assaggiare appena cotte, sfornate, fritte, grigliate, shakerate, bollite, scaldate, arrotolate, laccate, gelificate o impastate vi consiglio: i xiao long bao (ravioli ripieni di brodo), il famoso bubble tea (tè freddo con latte e palline di tapioca), il gua bao (panino al vapore ripieno di maiale o pancetta), il tofu fermentato, la aiyu jelly (gelatina di fichi aiyu), il pollo croccante, il ru lao fan (riso con maiale). Infine, il piatto più celebre della cucina taiwanese ovvero il niu ru mian (noodles con manzo in brodo). L’elenco del menu di strada potrebbe, ovviamente, proseguire per parecchie righe ed estendersi ad altri night market come il Rahoe Night Market che vale senz’altro la pena esplorare quando si ha abbastanza appetito. Ma volendo scoprire almeno una delle altre facce tradizionali dell’innovativa Tapei, l’attenzione va dirottata ora verso i templi.

Quelli taoisti, ma anche quelli buddisti sono, in particolari giorni del calendario lunare, meta di preghiere-blitz degli impiegati che dedicano il fine giornata a interrogare gli dei sulla propria sorte terrena e su ciò che riserva loro il prossimo futuro agitando due spicchi di legno (concavi e convessi) e gettandoli a terra. Il responso (sì o no alla domanda posta) arriva dalla posizione assunta dalla coppia di legnetti. Capita spesso, capita ovunque. Anche nel Tempio buddista di Lungshan, nel distretto di Wanhua. Un monumento che risale alla meta del 1700 e fu costruito nella zona ovest di Taipei dai coloni del Fujian durante la dominazione di Qing. Restaurato più volte, sopravvissuto a guerre e disastri naturali, è praticamente il tempio più antico della capitale. Frequentatissimo, rosso, dorato, con ampi cortili dall’impiantito lucido di pioggia, zeppo di fedeli in preghiera appollaiati su sgabelli e di lanterne decorate, è dedicato a Guanyin, dea buddista della misericordia. E tra le contrastanti suggestioni che ti lascia in testa e nel cuore – dopo una visita scandita dai sorrisi degli anziani seduti ad un lungo tavolone tra libri sacri e cibo – c’è senz’altro la profusione di statue, il luccichio delle lacche preziose e un profumo d’incenso tra i più intensi che si possano sentire.
Non meno ammaliante, nella zona sud-occidentale della città, il Tempio Sanxia Qingshui Zushi – costruito nel 1769 con cinque porte in bronzo – che la guida Cathy definisce “palazzo d’arte per la gente” o “tempio delle 130 colonne”. Non so dirvi se le colonne del tempio taoista siano davvero 130, è vero però che sono scolpite, magnificamente istoriate, traforate a mo’ di merletto, apparentemente flessibili come giunchi se pur incise nella solida pietra grigia. Alla loro fattura vi hanno lavorato nei secoli artisti e artigiani cinesi e non. Di rara armonia architettonica, scandiscono lo spazio sacro e accompagnano lo sguardo al soffitto tra volute di draghi, leoni dai denti digrignanti e serpenti antropomorfi. Si tratterebbe di Dragone e dei suoi nove figli (gli starni animali) che incorniciano il tempio. Aggiungo che muovendosi tra questa serie di capolavori ci si chiede dove comincia la spiritualità e finisce la mitologia. La grande campana di bronzo al piano superiore sigilla comunque la presenza dei rintocchi sacri per gli dei a noi sconosciuti. Al di là dell’aspetto religioso, il luogo stupisce per i legni, gli ottoni, la pietra e la straordinaria carica storica. Nelle guide di viaggio si annoterebbe: da non perdere.
Più piccolo (e nascosto dalle impalcature del lungo restauro) l’altro tempio piazzato all’angolo della Sanxia Old Steet, una strada speciale non dissimile dal cuore di un vecchio villaggio con tanto di portici e vicoletti. Edifici in mattoni rossi ospitano, sotto gli archi, una sfilza di negozi di alto antiquariato, abbigliamento taiwanese classico e (come al solito) tanto street food locale. Se è possibile prendetevi del tempo per scegliere un buon tè alle mandorle, approfittare di un silenzio rarissimo a Downtown e fare una sosta per ammirare qualche dettaglio barocco inusuale. E perfino qualche pinnacolo. Già arteria commerciale durante la dinastia Qing, con la colonizzazione giapponese Sanxia fu “contaminata” da molti edifici occidentali che oggi la rendono unica. Chi vuole sapere qualcosa di più sul suo passato può intrattenersi al Museo di Storia di Sanxia che si trova proprio all’inizio della strada.

Di distretto in distretto da Sanxia (a Nuova Taipei) ecco Yingge dove a farla da padrone in mezzo ai prati verdi in cui s’affacciano gli allestimenti scultorei di piatti, tazze e teiere giganti c’è il grande Museo della Ceramica che della lavorazione dell’argilla a Taiwan racconta i miracoli antichi e moderni, le tecniche, le origini, i successi in molte sale su più livelli. Il museo è di grande impatto visivo e fronteggia, dall’altra parte del parco, un’altra opera altrettanto (e forse di più) dirompente dedicata al piacere dell’occhio nella storia recente dell’uomo: il Museo d’Arte moderna di New Taipei. È un parallelepipedo rivestito da tremila canne d’acciaio poste ad altezze sfalsate che, come canne d’organo, simulano l’ondeggiare del vento degli arbusti sul fiume. Alcuni tubi argentei sono alti fino a dieci metri, altri (più corti) sono bucati come flauti. Lo scalone di accesso all’edificio riflette l’acciaio, il cemento, il bianco abbagliante e la resina attraverso gli specchi piazzati sul soffitto per ampliare la sensazione di galleggiare sull’acqua. Il MOCA si trova, infatti, alla confluenza dei fiumi Yingge e Dahan, proprio sulla riva del Dahan. E vuole ricordare a chi arriva il forte nesso del distretto con la natura. Non so se ce ne sia reale bisogno: nella supertecnologica Taiwan parchi e grattacieli si confondono e si mescolano. Di distretto in distretto attraverso un’isola poco più grande della Sicilia, anche i viaggiatori più analitici si renderanno conto che le definizioni da queste parti non contano. Il passato e il futuro convivono con una voglia di sviluppo troppo spesso archiviata in Europa.