Il mio primo viaggio a Haiti è stato magico. Era l’ottobre 2007 e mi stavo innamorando di un haitiano, Max, cresciuto tra Brooklyn e la capitale del suo Paese, Port-au-Prince. Amici e parenti mi consigliavano prudenza, ma durante il nostro viaggio di sei giorni le mie ansie si sono placate. Sono rimasta affascinata dai ristoranti eclettici tappezzati di bouganvillee di Pétion-Ville, sobborgo cosmopolita di Port-au-Prince; dal fascino coloniale del centro di Jacmel; e dalle quattro piscine naturali di Bassin Bleu tra le lussureggianti montagne lungo la costa sud-orientale dell’isola. Il fascino di Haiti mi ha conquistato a tal punto che ci siamo tornati sette mesi dopo. Questa volta ci siamo diretti a nord, a Cap-Haitien, dove si trovano ancora i monumenti che ne testimoniano l’orgogliosa storia come prima repubblica nera del mondo: la Citadelle Laferrière, il Palazzo Sans-Souci e la statua che commemora la battaglia di Vertières, lo scontro finale con Napoleone con cui Haiti conquistò l’indipendenza dalla Francia nel 1803.
Quando io e Max abbiamo scoperto di aspettare un bambino, parlavamo spesso di portarlo ad Haiti affinché potesse serbare dei ricordi del suo paese. Jillian è nata nel gennaio 2010. Pochi giorni dopo Haiti è stata colpita da uno dei terremoti più devastanti della sua storia. Quasi 220mila persone hanno perso la vita e più di un milione sono state sfollate. Il nostro impegno ad approfondire le radici di nostra figlia si è fatto ancora più forte.
Ho portato Jillian a Haiti per la prima volta a ottobre 2012. Non aveva neanche due anni, quindi la tenevo in braccio. Suo padre aveva avviato un’impresa edile nel paese e lavorava lì da alcune settimane prima del nostro arrivo. Max ci ha portato al Wahoo Bay Beach Club, 70 minuti a nord-ovest della città. Abbiamo trascorso alcuni giorni splendidi in questo boutique hotel a conduzione familiare su una scogliera con vista sul mare e sull’isola di Gonave.
Quando Jillian aveva otto anni, l’abbiamo riportata a Haiti, e questa volta abbiamo trascorso una settimana nella casa di una prozia vicino a Kenscoff, un sobborgo in montagna, dove nostra figlia raccoglieva banane nel cortile di casa. Da lì siamo andati a Les Arcadins, sulla costa occidentale. Abbiamo trascorso tre giorni interi facendo la spola tra il mare e la piscina, fermandoci solo per consumare pasti a base di pesce in umido, diri djon djon (riso nero), riz national (riso e fagioli), lambi (strombo in umido) e griot (maiale fritto). A cena Jillian beveva una bevanda al lime fresco mentre io e suo padre sorseggiavamo il rum haitiano Barbancourt ascoltando un gruppo locale che suonava musica kompa. Abbiamo dovuto pianificare entrambi i viaggi di nascosto.
La famiglia di Max, che aveva lasciato Haiti nel 1967, durante i 14 anni di dittatura di François “Papa Doc” Duvalier, e non tornava in patria da decenni, assorbiva ogni notizia di attualità negativa che circolava nell’affiatata comunità haitiana di Brooklyn. Essendo una nera americana senza legami con un paese specifico della diaspora africana, non riuscivo a capire il loro atteggiamento. Alla fine ho chiesto a Max perché sua madre e le sue zie fossero così sprezzanti. Mi ha risposto: «Hanno nostalgia della Haiti in cui sono cresciute». Dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse nel 2021, Max e io abbiamo iniziato a condividere la riluttanza della sua famiglia. Lavorando a Haiti, lui ha potuto vedere da vicino il cambiamento del clima politico, e ha ammesso che la crescente violenza delle gang rendeva troppo pericoloso il nostro viaggio. Negli anni seguenti la situazione è peggiorata ulteriormente e a marzo 2024 è stato imposto lo stato di emergenza.
Così, negli ultimi sei anni, Max ha aiutato costantemente nostra figlia a coltivare le sue radici haitiane nella nostra casa a Brooklyn. Innanzitutto ha insistito perché imparasse a mangiare correttamente un mango. Un giorno sono tornata a casa con un contenitore di Whole Foods pieno di questo frutto tagliato a fette. Io e Jillian le stavamo mangiando direttamente dalla confezione quando suo padre ha esclamato: «Non è così che si mangia!».
Ok mesye (“signore” in creolo haitiano), come si mangia allora? «Bisogna addentare la polpa in alto e aspirare il succo. Poi togliere la buccia e consumare il frutto intorno al seme». Wow! – o mézanmi, come dicono gli haitiani. Ma il modo più autentico per mantenere i nostri legami con Haiti è la cucina, dal mayi moulen (cremoso porridge di mais alla haitiana) al sos pwa nwa (salsa di fagioli neri) e alle cene del sabato con la famiglia, dove le zie servono abbondanti porzioni di brodo con carne di capra (mentre la zuppa joumou è riservata alla mattina di Natale e al primo gennaio, giorno dell’indipendenza di Haiti). Nel frattempo che cuciniamo, ascoltiamo la playlist Haitian Heat di Spotify o la nostra selezione di Haitian Troubadours, Boukman Eksperyans, Alan Cavé e Konpa Kreyol. E quando vogliamo festeggiare, nel raggio di otto chilometri da casa nostra ci sono diversi ristoranti dall’atmosfera haitiana: il Rebèl Restaurant & Bar nel Lower East Side; l’Immaculee Bakery in Nostrand Avenue a East Flatbush; e in fondo alla strada, il DjonDjon BK.
Invece di tornare a Haiti, andiamo ogni anno a Barbados, che per Max è come una seconda patria. Dal momento in cui arriviamo a “Bim”, come viene chiamata l’isola, ci impegniamo a trascorrere il tempo più da bajani che da turisti. Iscriviamo nostra figlia a lezioni di tennis e di surf e passiamo le serate con gli amici mentre arrostiscono il frutto dall’albero del pane in giardino. Il venerdì andiamo all’Oistins Fish Market per la festa settimanale a base di soca, cibo e bevande. Abbiamo avuto un posto in prima fila per il Crop Over e abbiamo assistito alla sfilata in maschera del Carnevale.
Abbiamo mangiato nei rum shacks, ordinando pesce, pasticcio di maccheroni e birra Banks (e un mocktail alla frutta per nostra figlia). Abbiamo capito che i nostri sforzi stavano avendo successo lo scorso agosto, quando io e mia figlia abbiamo pranzato al Limegrove Lifestyle Centre di Holetown, sulla costa occidentale di Barbados. Per arrivarci abbiamo preso uno degli autobus arancioni che si fermavano di fronte al nostro hotel. Dagli altoparlanti usciva musica dancehall a tutto volume. Io ero impegnata a guardare le indicazioni sul mio telefono, ma Jillian aveva già suonato il campanello per prenotare la fermata successiva. Camminando con sicurezza verso la parte anteriore dell’autobus, mi ha guidato nella nostra avventura sull’isola. Quando quella sera l’ho raccontato a suo padre, ha sorriso con orgoglio. «Sta diventando una ragazza caraibica».