Appena sceso dalla macchina, so precisamente cosa sta per accadere. C’è una soglia quasi impercettibile da attraversare. È una sorta di stargate terrestre e silenzioso, che separa il mondo com’è da come potrebbe essere. Borgo San Felice Resort è così: un luogo altro, dalla bellezza stratificata, dove il tempo ha smesso di correre e dove ogni pietra racconta successioni di vite. La storia del villaggio è peculiare e parla di origini etrusche, di contese vescovili durate cinque secoli (le prime citazioni risalgono al 714) e di una famiglia nobile che, a partire dal 1700, fece della casa padronale di San Felice la sua stabile residenza.
Fu Giulio Grisaldi Del Taja, intuendo il grande potenziale agricolo del territorio, che investì in possedimenti rurali e partecipò alla fondazione del Consorzio del Chianti Classico nel 1924. Poi arrivarono gli anni Settanta, e con loro la compagnia assicuratrice Ras (oggi parte del Gruppo Allianz): nuova proprietà, nuovi capitali e un importante progetto di restauro conservativo e di sviluppo produttivo dell’azienda agricola. Dal 1990 il borgo è stato progressivamente trasformato in un albergo diffuso a cinque stelle, in un crescendo di cura e coerenza: «E dal 1992 è stato associato al circuito Relais & Châteaux, siamo stati i primi nel Chianti Classico», mi ricorda con un sorriso d’orgoglio il general manager Danilo Guerrini. È lui, da dieci anni, a orchestrare la vita di questo wine resort a pochi chilometri da Castelnuovo Berardenga, tra le colline senesi, circondato da 150 ettari di vigneti, dove ogni spazio ha trovato una nuova vocazione: il forno trasformato in reception, l’antico frantoio in spa, l’orciaia in palestra, l’officina meccanica in ristorante.

Tutte le volte che torno, amo passeggiare pigramente tra i vicoli acciottolati, rallentando con convinzione, come se anche il passo dovesse adeguarsi al contesto. Mi fermo a cogliere dettagli del tempo che fu – resistono eroicamente la vecchia insegna in ferro battuto “vino, olio e generi alimentari” e quella gialla del telefono pubblico, oggetto ormai esotico per la generazione che vive con la batteria al 5%. Scruto i palazzi e le case che oggi ospitano anche le 40 raffinate camere e 23 suite (curiosità: i toni variano in base all’esposizione delle stanze, con abbinamenti cromatici propri delle bandiere di ciascuna contrada del Palio di Siena). A pochi passi dalla dimora si trovano anche le splendide Villa Casanova e Villa Colonna, prenotabili in esclusiva.

Entro come sempre nella boutique, per provare le raffinate fragranze di Maria Candida Gentile, naso eclettico che firma anche le amenities presenti nei bagni. Il mio profumo preferito? Viridarium, ispirato a un giardino dell’antica Roma in cui dialogano agrumi, erbe selvatiche, dattero e cera d’api. Lungo la strada principale – un tempo tappa della Via Francigena – incrocio camminatori curiosi e moderni pellegrini in cerca della luce giusta per fotografare la piccola Pieve, all’ingresso del paese, dove mi è già capitato di assistere a uno degli intimi concerti organizzati insieme all’Accademia Chigiana. «All’entrata di Borgo San Felice non ci sono cancelli: è un luogo aperto, vissuto da tutti, che esprime un lusso accessibile, senza spocchia. Attraversandolo, a piedi o in bicicletta, fai già un’esperienza», continua Guerrini, che è anche presidente della delegazione italiana di Relais & Châteaux. Per fare un esempio: in occasione del Sabato del Villaggio, un mercato che riempie le stradine del borgo di artigiani, non c’è differenza tra i residenti in albergo e i visitatori esterni.

La piazza medievale è il centro di San Felice. Qui lo sguardo si allarga e compone da solo l’inquadratura perfetta: da un lato, il Palazzo del XVIII secolo, dall’altro la neogotica Cappella della Madonna del Libro con la facciata in pietra alberese e il portale sormontato da una lunetta, edificata nel 1899 su progetto dell’architetto Bettino Marchetti e ristrutturata tra il 1922 e il 1933. È una cartolina colta, che riesce ad accontentare sia gli appassionati di storia dell’arte che i turisti armati di gimbal. A pochi passi ecco l’Enoteca, il luogo deputato, tra muri in pietra e volte a botte, alla scoperta dell’intera collezione di vini di San Felice, che comprende anche quelli delle altre due tenute del gruppo: Campogiovanni a Montalcino e Bell’Aja a Bolgheri. Osservo molte coppie giovani che degustano con interesse o che, semplicemente, si portano via una bottiglia come un ricordo: se è vero che il vino sta perdendo fascino tra le nuove generazioni, qui la tendenza sembra essersi fermata alla porta del borgo.
A tutti viene raccontato che proprio qui, nel 1968, nacque il Vigorello, primo Supertuscan mai prodotto nel Chianti Classico, a dimostrazione dello spirito innovativo che ha sempre caratterizzato l’azienda. Nato come Sangiovese in purezza, negli anni si è evoluto con l’introduzione di varietà internazionali nel blend, diventando così un classico taglio bordolese (Merlot, Cabernet Sauvignon e Petit Verdot) al quale, più recentemente, è stato aggiunto il Pugnitello, antica uva autoctona che ne accentua la territorialità. Mi piacciono le sue note di spezie e sottobosco, il palato complesso e potente, ma elegante. Può essere dimenticato in cantina per diversi anni, perché dà il meglio di sé con il trascorrere del tempo. Da poco è stata presentata la nuova linea Vitiarium – con le bellissime etichette firmate dall’architetto e designer Federica Cecchi – che prende il nome dal vigneto sperimentale di 2,5 ettari che ha permesso di identificare 30 varietà indigene, tutelando così la biodiversità viticola toscana.

«A San Felice adottiamo una viticoltura rigenerativa, che mi piace definire “in ascolto”, e cioè che presta la massima attenzione nel capire come gestire il lavoro di campagna e di cantina. Il nostro obiettivo è produrre vini di qualità, preservando e migliorando le risorse naturali che abbiamo a disposizione. Per noi è fondamentale la vita del suolo, così da avere vigne più resistenti al cambiamento climatico», mi spiega il direttore generale Carlo De Biasi. Il team enologico dell’azienda può oggi contare anche sulla collaborazione di un “wine coach” di talento, Thomas Duclos, una delle voci più autorevoli della nuova generazione enologica francese. «Noi vogliamo costantemente metterci in discussione, evolvere e innovare. Con il suo supporto vogliamo valorizzare le specificità di ogni territorio, portando i nostri vini a un livello ancora più alto di riconoscibilità e personalità», continua de Blasi mentre io assaggio l’annata 2021 de La Pieve, Chianti Classico Gran Selezione dal naso articolato e dal sorso succoso, e la 2022 di In Avane, uno Chardonnay di grande finezza e sapidità, piacevolissimo. Sono senza alcun dubbio i miei coups de coeur della degustazione.
A San Felice, il vino non è un compartimento stagno, ma parte di un sistema di ospitalità più ampio che parla la stessa lingua: quella del territorio, della ricerca e della qualità. Non sorprende, dunque, che anche la proposta gastronomica sia particolarmente ambiziosa e coerente. Per sei anni, la cucina ha avuto l’accento colombiano e la mano elegante e precisa di Juan Camilo Quintero, chef capace di costruire – sotto la supervisione di Enrico Bartolini – un’identità sfaccettata, curiosa, eppure perfettamente radicata. Al Poggio Rosso – una stella Michelin dal 2020, a cui si è aggiunta la stella verde per la sostenibilità nel 2022 – non si veniva per cercare la Toscana da cartolina, ma per scoprire come quello stesso territorio potesse essere riletto, con sensibilità, in chiave contemporanea. Ora Quintero si è trasferito a Roma per curare un nuovo progetto ristorativo di Allianz nel centro della Capitale, che sarà svelato la prossima primavera.

Al suo posto – come head chef – è arrivato il greco Stelios Sakalis, ormai toscano d’adozione dopo tante esperienze di successo nel Chianti Classico, in particolare quella alla guida de Il Pievano al Castello di Spaltenna, che valse una stella Michelin. Sakalis porta in tavola un felice e armonioso métissage che attraversa il Mediterraneo: «È un fil rouge naturale, non forzato. Cerco di fondere la cucina toscana con quella greca, utilizzando prodotti che fanno parte di entrambi i repertori e giocando con la mia memoria. Bartolini è uno straordinario mentore, che però mi ha lasciato libero di esprimere la mia creatività», mi racconta lo chef. Provo dunque piatti sorprendenti, pescando tra i diversi percorsi degustazione: Funghi del Chianti e crudo di Chianina alla brace, Risotto con burro bruciato e salvia, finger lime e ragù di creste di gallo, Piccione di Laura Peri, briacacio, uva e petimezi (mosto cotto).
E poi, ancora una volta, il signature che Sakalis si porta dietro da diversi anni: lo Spaghetto Sbagliato, una folgorante reinterpretazione del celebre cocktail in cui la pasta è condita con burro al Vermouth, scorza d’arancia e polvere di Campari. Il menu San Felicità comprende solo proposte vegetariane, con prodotti provenienti dall’Orto e dall’Aia Felice, il progetto di inclusione sociale volto a migliorare la qualità di vita di ragazzi con disabilità. Simone, Andrea, Daniele, Cristina e Giacomo, tra gli altri, sono i protagonisti dell’orto, ognuno con una mansione specifica. Imparando dalla saggezza e dall’esperienza di anziani volontari del territorio, i “nonni”, i ragazzi si prendono cura degli ortaggi e delle galline.

In cantiere ci sono tante novità: le più significative riguardano l’ampliamento di The Botanic Spa (ad oggi uno spazio di 350 metri quadrati), la costruzione di una seconda piscina, la trasformazione del vecchio spazio per il conferimento delle uve in un bistrot, aperto a pranzo e a cena. L’Osteria del Grigio – l’altro outlet dell’hotel dedicato a una cucina più tradizionale e comfort – rimarrà aperta per i corsi di cucina o per ospitare pranzi riservati, ad esempio agli appassionati di auto d’epoca che scorrazzano spesso per queste cenografiche strade. E con la stagione 2026, Borgo San Felice Resort rimarrà aperto fino a gennaio, nel segno di una destagionalizzazione del turismo (di alta gamma). Perché un luogo come questo merita di essere visto e vissuto sempre.