A Firenze un boutique hotel offre la migliore accoglienza del mondo

A Firenze un boutique hotel offre la migliore accoglienza del mondo

Claudio Meli, general manager di The Place Firenze, vince il premio Hotelier of the Year 2025 alla Virtuoso Travel Week (e racconta la sua visione di ospitalità).
Vista The Place Firenze
Vista The Place Firenze

In una notte di agosto a Las Vegas, durante la 37° edizione della Virtuoso Travel Week – evento di riferimento mondiale per il turismo di lusso – è stato assegnato il premio di Hotelier of the Year 2025 a Claudio Meli, general manager dell’hotel The Place di Firenze. Un riconoscimento importante che continua a far parlare della città di Dante nel mondo, da sempre crocevia di arte e storia con i suoi monumenti emblematici come Santa Maria Novella. Spesso associata alla stazione, la piazza è dominata da una basilica che unisce elementi gotici e rinascimentali. La riservata bellezza di questo largo – per buona parte pedonale – è racchiusa nella circolarità dei terratetti, testimonianza dell’antica nobiltà che un tempo li abitava. Tra questi, al civico 7 e quasi dirimpetto alla basilica, c’è un edificio che la famiglia Babini ha trasformato in una vera e propria destinazione grazie alla visione di un fiorentino DOC che risponde al nome di Claudio Meli. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare cosa significa fare ospitalità nella Firenze odierna.

Claudio Meli, Virtuoso Travel Week

Un giovane Claudio Meli faceva il dj, aveva vent’anni e studiava legge, poi che è successo?

«È successo che un giorno, cercando qualche lavoretto, sono entrato al Savoy, quando a Firenze non c’erano ancora tutti i cinque stelle di oggi e mi sono innamorato della figura mitologica dellhead concierge. Era lui che poteva far accadere qualsiasi cosa: conosceva tutto e tutti e, con le sue chiavi d’oro appuntate sulla giacca, sorrideva e creava esperienze uniche per chiunque arrivasse da ogni parte del mondo. C’era qualcosa di magnetico nell’energia che sapeva trasmettere alle persone».

Poi quelle chiavi d’oro le ha prese anche lei e di fatto non le ha più tolte

«Questo è un mestiere che ti porti dentro, che parte da te, dalla tua curiosità e dalla voglia di incontrare le persone e farle stare bene. Consapevole che ognuno ha una storia unica e, quando arriva, ne cerca un’altra altrettanto speciale. Il The Place, per me, è un nuovo Rinascimento, è una visione personale dell’accoglienza, profondamente radicata in una Firenze lontana da qualsiasi cliché. Fortunatamente abbiamo tanta storia e tanta bellezza da ammirare, ma questa città è molto di più: è fatta di esperienze da vivere. Storie di artigiani che ancora oggi portano avanti mestieri e tradizioni che noi vogliamo custodire e far conoscere».

Secondo lei è questa la sfida del turismo italiano nel prossimo futuro?

«L’ospitalità italiana è diventata grande nel mondo grazie a famiglie che, con passione e dedizione, hanno fatto un lavoro straordinario. Famiglie che esistono e resistono ancora, come i Babini. Detto questo, ben vengano tutte le nuove aperture delle catene internazionali del lusso. L’importante è che la grande accoglienza non diventi qualcosa di standardizzato. Non possiamo permetterci di perdere la battaglia per difendere l’unicità di ogni destinazione italiana, preservando quei luoghi di ospitalità che riescono a trasmettere davvero l’anima del territorio. Questo è il futuro, restare Italia».

Come potrebbe essere possibile?

«Andando oltre sé stessi. La nostra ricerca non si ferma all’essere il The Place all’interno delle sue mura: il mio impegno quotidiano è portare quello spirito anche fuori, per garantire a chi sceglie di venire da noi di vivere un’autentica esperienza fiorentina. Mi ricordo, ad esempio, di una coppia arrivata dall’Alaska con un jet privato per girare l’Europa. Quando fecero tappa a Firenze, ci sedemmo per un aperitivo e dissi loro: “Scusate, ma vi va di provare qualcosa di speciale e veramente locale?”. Il giorno dopo, mi presi la responsabilità di portarli, con un autista, fino al passo della Consuma, a mille metri di altitudine. Un posto dove andiamo noi fiorentini in moto, dove si mangia una schiacciata favolosa farcita con porcini caldi accompagnata da un bicchiere di vino. Forse un’esperienza che in tutto sarà costata dieci euro, in un luogo dove non c’è neanche una persona che parla inglese. Eppure questa coppia è rimasta contentissima, perché aveva vissuto qualcosa di autentico, impossibile da immaginare per loro. Questa, per me, è l’essenza dell’ospitalità: offrire esperienze legate alla destinazione».

Santa Maria Novella Master suite

Che cos’è per lei il lusso?

«Il lusso per molto tempo è stato sinonimo di qualcosa di inaccessibile. Poi, negli anni, l’accessibilità è stata misurata con i soldi, ma il prezzo non è tutto. Spesso è proprio la semplicità a vincere. Nel nostro caso, il lusso che vogliamo trasmettere è fatto di attenzioni: la capacità di intercettare il sogno di chi attraversa il mondo per arrivare fin qui. Ascoltiamo le persone, investiamo tempo e risorse nel restituire qualcosa che lasci il segno a chi ci ha dato fiducia. Abbiamo ospiti che, al momento della partenza, prenotano già per l’anno successivo, con l’adrenalina di chi sa che vivrà qualcosa di nuovo. Come ad esempio le storie dei nostri artigiani: proprio a loro abbiamo dedicato una fondazione».

Ci dica di più su questa fondazione

«Tre anni fa, insieme alla famiglia Babini, abbiamo creato la fondazione The Place of Wonders con l’obiettivo di sostenere e tramandare la Firenze dei mestieri. Attraverso donazioni e fondi, si finanziano borse di studio a favore di chi sceglie di formarsi come artigiano. In questi tre anni ne abbiamo già assegnate ventotto, scommettendo sul bisogno di una nuova generazione di artigiani, un sapere antico che rischia di scomparire sotto il peso della globalizzazione. Dobbiamo salvaguardare il valore di quel saper fare che ci appartiene e che è totalmente italiano, altrimenti perché si dovrebbe venire a Firenze, a Roma o a Venezia? Noi siamo molto di più di un museo a cielo aperto, siamo vivi».

L’overtourism può essere un fenomeno che distrugge questo tipo di visione?

«Parliamo di un fenomeno presente in tutte le più grandi città del mondo, da New York a Singapore. È vero che il nostro Paese ha città più piccole e spazi più contenuti e quindi la gestione diventa più complessa. Il turismo, tuttavia, lo costruiamo noi, attraverso l’offerta che proponiamo. Per farlo rispettando la nostra storia, dovremmo iniziare a riportare i residenti nei centri storici, dando loro più spazio così da permettere di far rinascere una vita urbana autentica, fatta di botteghe e di persone, piuttosto che di negozi campeggiati da marchi».

Team The Place Firenze

Questo significa essere il miglior hotelier del mondo?

«Sono molto orgoglioso del riconoscimento ricevuto alla Virtuoso Travel Week di Las Vegas. Ero seduto accanto ai Ceo dei più grandi marchi internazionali, rappresentando non solo il mio lavoro, ma una famiglia. Credo sia la prima volta che un albergatore di una piccola struttura da venti camere, indipendente, salga sul tetto del mondo. Ringrazio tutta la mia squadra e invito i giovani ad avvicinarsi a questo mestiere. Non abbiate paura di entrare in un hotel e trasformare la voglia di stare in mezzo agli altri in un lavoro meraviglioso e gratificante: ne abbiamo bisogno, le vostre città ne hanno bisogno».

Per Claudio Meli, The Place abbraccia tutta Firenze ed è un abito cucito su misura, fatto di dettagli che raccontano la personalità unica di ogni ospite. Un grande lavoro che, purtroppo, non sempre è possibile, ma che ogni grande albergo dovrebbe perseguire.

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