Alle quattro del mattino, lontano dalla civiltà su un’isola delle Ebridi Interne, mi sono svegliata con il rumore della pioggia che batteva sul tetto della tenda. Il vento fischiava tra le corde e le onde si infrangevano proprio sotto di noi. Mia figlia dormiva accanto a me sotto uno spesso piumone, due sacchi a pelo impilati e un paio di coperte di lana: agosto in Scozia. Eravamo in cima a una scogliera sull’isola di Jura, e dalla finestrella della tenda potevo vedere il mare scintillante sotto il chiaro di luna – elegante, indifferente, vasto. Avevo la sensazione di trovarmi ai confini del mondo, o per lo meno in uno di quei luoghi in cui è labile il limite tra il tangibile e il sublime.
Settantacinque anni prima George Orwell scrisse su quest’isola il suo iconico romanzo 1984. Era uno dei pochi abitanti e risiedeva in una casa colonica imbiancata lungo la costa a sei chilometri dal posto in cui ci trovavamo. Vedovo da poco, era venuto sull’isola con il figlio piccolo. Mi sembrava appropriato che si potesse immaginare un futuro distopico allontanandosi il più possibile dal presente distopico. Orwell definiva l’isola “inaccessibile”. In effetti, per me e mia figlia di sei anni non era stato proprio facile arrivarci – avevamo dovuto viaggiare in aereo, via terra e via mare. Aveva un che di miracoloso, questo gruppo di tende affacciato su acque turbolente dove galleggiavano foche comuni e scintillanti cormorani neri, incastonato tra aspre colline punteggiate di cervi, capre selvatiche, pennacchi a foglie strette e piante di digitale.

Era come ritrovarsi in un’illustrazione di un libro di fiabe. Avevo acquistato il pacchetto Hebridean Sea Safari di Glenapp Castle: due giorni in questo opulento hotel nel South Ayrshire e tre giorni in barca a esplorare isole remote. Al Glenapp il lusso era quasi irreale: letto a baldacchino con tende di broccato rosso, un uomo in kilt che recitava l’ode all’haggis prima di tagliarlo, piatti con carote e rape coltivate negli orti sotto la nostra finestra e una serra vittoriana con un laghetto per le carpe. I miei antenati erano scozzesi, e il desiderio di esplorare quel retaggio, e di consentire a mia figlia di fare altrettanto, era stato uno dei motivi che mi avevano spinto a fare questo viaggio. Provengo da molte generazioni di contadini che discendono da quattro clan scozzesi: MacDonald, Cumming, Duncan e Leslie. Il mio nome è il cognome di mia madre; quando ero bambina, le chiesi delle sue origini ma fraintesi la sua risposta in “grande vongola (clam, ndt) scozzese”, immaginandomi una creatura mostruosa annidata sul fondo di mari freddi e implacabili.
La storia della mia gente assomiglia ben poco alla Scozia dell’immaginario americano. Sono cresciuta ascoltando racconti di contadini poveri, freddo pungente e depressione ereditaria. Il mio trisnonno si impiccò nel fienile durante l’inverno. La mia trisnonna fu creduta morta alla nascita e lasciata nella legnaia finché il terreno non si fosse scongelato abbastanza da poterla seppellire; qualcuno la sentì piangere nel cuore della notte e uscì a salvarla. Grazie al pianto di quella neonata, tutti noi siamo potuti venire al mondo. La mia famiglia si è sempre identificata con quelle che noi consideriamo virtù scozzesi: forza d’animo, stoicismo, operosità (io ho ereditato solo l’ultima!). Sono cresciuta con lo stemma del clan Leslie – e il suo motto Grip Fast (“tenere duro”) – accanto alla porta di casa. Mia figlia mi ha sorpreso con il suo interesse per il nostro background scozzese, creando con entusiasmo un cartellone con foto di bovini di razza Highlander, del lancio del tronco e della principessa guerriera Merida, l’eroina di Ribelle – The Brave, l’epopea Disney ambientata nelle Highlands.

Cosa significa essere originari di un luogo? Non volevo rivendicare la Scozia; mi sembrava di non averne il diritto. Volevo solo visitarla per provare meraviglia e soggezione. Volevo regalare a mia figlia ricordi che potessero avvicinarci a questa parola altrimenti astratta, Scozia. Volevo contrapporre alla sua versione disneyana delle sensazioni viscerali: giorni di pioggia e calzini bagnati, fuochi caldi e mari agitati, pietra grigia sullo sfondo di cieli grigi. Il nostro soggiorno in Scozia era però iniziato a Glenapp, un castello che con i suoi bastioni in arenaria e le torri ricoperte di rampicanti pare uscito da un libro di fiabe. Subito dopo essere entrate nella nostra sontuosa suite – con tanto di vasca con piedini e soffici divani in tartan disposti intorno al caminetto – mia figlia ha notato una porta segreta nel muro.
All’interno c’era un passaggio che portava a una scala a chiocciola nascosta in una torretta d’angolo. Poi mi ha chiesto se avevo visto il lampadario di cristallo; quando ho risposto di sì, mi ha detto che intendeva l’altro, e quindi mi sono accorta che c’era un secondo lampadario appeso nel letto a baldacchino. «Un letto da principessa ha il suo lampadario», ha spiegato con aria sicura, già avvezza alle regole di questo nuovo e strano regno. Durante il nostro soggiorno ho scoperto che Glenapp Castle, costruito nel 1870 nel tipico stile baronale scozzese, vanta un cast di pittoreschi fantasmi: un’aristocratica proto-femminista che dispose che ogni donna incinta dei villaggi vicini fosse invitata a partorire nel castello della sua famiglia; un’attrice del cinema muto, Poppy Wyndham, che tentò senza successo di attraversare l’Atlantico con un aereo monomotore nel 1928; un veterano americano che trasformò il piano terra in una stazione radio e trasmise il Vangelo in Irlanda del Nord nel periodo dei Troubles. Durante la Seconda guerra mondiale Winston Churchill soggiornò nel castello, dove presiedette una cruciale riunione per pianificare il D-Day.

Nel pomeriggio del primo giorno abbiamo visitato la vicina Airyolland Farm, dove i coniugi Janet e Neale McQuiston allevano pecore Beltex e bovini Highlander. Neale descrive la sua famiglia come una “nuova arrivata” nella zona, dato che si dedica all’agricoltura solo da sette generazioni (invece la famiglia di Janet vanta 11 generazioni – dal 1624 – nella Luce Valley). Abbiamo incrociato alcuni esemplari di bovini Highlander, e ho notato che le femmine (Sineag V di Airyolland, Isla X di Applecross) hanno nomi più fantasiosi dei maschi (Fergus, Wanky Lug). Neale ci ha spiegato che i bovini sono organizzati in matriarcato, con una femmina a capo della scala gerarchica. Trattandosi di una razza da riproduzione, i loro nomi ricercati fanno sempre riferimento alla loro ascendenza. Nel pascolo riservato agli animali di un anno ci siamo fermati a spazzolare il loro splendido pelo lungo con grandi pettini di metallo e abbiamo potuto conoscere alcune delle loro imprese: di recente un toro di nome Droigheann aveva saltato un recinto di pietra per rivendicare le proprie femmine da un nuovo arrivato, mentre un giovane esemplare di nome Seamus continuava a tornare di nascosto a dormire con la madre dopo aver trascorso la notte in compagnia dei coetanei.
Ci era stato detto che in Scozia si possono sperimentare tutte e quattro le stagioni in un solo giorno, ma durante il nostro viaggio ne abbiamo vissute sempre e solo tre: giornate cupe e piovose, aria frizzante primaverile e qualche occasionale esplosione di cielo azzurro e aria tiepida. Gli acquazzoni erano così frequenti che mia figlia ha iniziato a definirsi “cacciatrice di arcobaleni”. Tutte queste giornate grigie, però, ci hanno incoraggiato a cogliere i piaceri della pioggia, invece di continuare a desiderare il sole. Indossate le giacche a vento, ci siamo addentrate nel parco del castello come due esploratrici, iniziando da uno splendido giardino all’italiana progettato da Gertrude Jekyll, celebre orticoltrice che ai primi del Novecento disegnò oltre 400 giardini nel Regno Unito e all’estero. Influenzata da J.M.W. Turner e dagli impressionisti, Jekyll usava le piante come pennellate di colore (uno dei suoi fratelli minori era amico dello scrittore Robert Louis Stevenson e ispirò il nome del suo personaggio più famoso, o almeno della sua personalità migliore).

Mia figlia ha iniziato subito a inventare una storia: “C’era una volta un giardino incantato in cui ogni fiore aveva il suo mondo segreto…” Ammirando i fiori incastonati come gioielli nelle siepi, ne ha indicato uno che racchiudeva un mondo di unicorni, un altro che era popolato di nonne, un altro ancora che ha chiamato semplicemente “mondo di- non-so-cosa”. Mia figlia aveva scoperto il grande dono dei viaggi: condurti oltre i confini di ciò che è familiare e comprensibile. Il primo giorno del tour in mare ci siamo rifocillate con uno straordinario picnic servito sul ponte di poppa del nostro grande gommone arancione a chiglia rigida: affettati, coda di astice, scones con panna e macarons al whisky. Tenevamo i piatti sulle ginocchia osservando una coppia di falchi pescatori appollaiati nel loro nido (il nostro skipper, Sandy, mi ha spiegato che erano venuti dal Sudafrica per accoppiarsi).
Poi abbiamo affrontato le acque turbolente del famigerato Golfo di Corryvreckan, uno stretto tra le isole di Jura e Scarba dove si trova il “calderone della strega”, uno dei più grandi vortici marini del mondo. Mia figlia, che è fissata con la mitologia greca, continuava a gridare: «Vedo Cariddi!». Ma secondo la leggenda locale, in queste acque la dea celtica dell’inverno, Cailleach Bheur, lava il suo plaid fino a renderlo candido e a trasformarlo nella coltre di neve che ricopre il terreno in inverno. Una volta Orwell e suo figlio Richard persero la barca nel Corryvreckan e dovettero nuotare fino a riva. La nostra radio aveva captato una richiesta di soccorso da parte di un’imbarcazione rovesciata, ma Sandy era impassibile e cavalcava le onde con una tale abilità che sembrava di fare surf.

Avvicinarsi al nostro accampamento dal mare è stato emozionante. Dopo aver avvistato in lontananza le piccole tende bianche sulla scogliera, siamo scesi dalla barca e abbiamo percorso un sentiero fangoso in salita fino a un mondo in cui tutto era stato meticolosamente organizzato. Niente elettricità. Niente wi-fi. Niente impianto idraulico. Solo un labirinto di passerelle di legno che collegavano un gruppetto di tende accoglienti illuminate da lanterne e arredate con tappeti di montone, bauli di cuoio e coperte in tartan. Abbiamo cenato in una tenda illuminata da candelabri sospesi e riscaldata da una stufa bassa, i lembi aperti per vedere le nuvole del temporale che oscuravano il mare mosso. La nostra cena di tre portate era così elaborata che era quasi impossibile credere che fosse stata preparata nella tenda accanto: capesante e scampi freschissimi (le nasse erano appese al molo), carne di cervo con le more del giardino del castello e un financier al cioccolato bianco con zenzero candito.
Mia figlia era affascinata dagli aspetti pratici della vita sull’isola. Ha imparato subito come funzionava il bagno da campo, incluse le valvole del WC e il lavabo (e ripeteva il procedimento all’infinito). Ha deciso che noi due avremmo dormito nello stesso letto e ha riservato l’altro ai suoi peluche. Nelle notti fredde apprezzavamo molto il rituale di rannicchiarci sotto i nostri numerosi strati. Eravamo arrivate in quello che i celti definivano “luogo sottile”, in cui il confine tra terra e cielo è labile, ma avevamo bisogno di coperte spesse per poterci dormire. In realtà avevamo attraversato ogni tipo di tempo, meteorologico ed emotivo. Mia figlia alternava momenti di stupore reverenziale per ciò che ci circondava e momenti di sublime tracollo, di un’intensità quasi terrificante. Si è arrabbiata con me nella cabina della barca mentre gli altri membri del gruppo scorgevano un’aquila dalla testa bianca tra gli alberi (prima che chiudessero in silenzio la porta della cabina per non spaventare l’aquila, li avevo sentiti esclamare: «Sta lasciando il nido!»). Più tardi, mentre giocava sulle rocce scivolose coperte di alghe esposte con la bassa marea, mia figlia ha esclamato: «Ecco il momento in cui la storia si infrange contro la riva». Sembrava il modo perfetto per descrivere l’attimo in cui una storia diventa bella: quando il desiderio si scontra con la resistenza, quando la forza di volontà incrocia un ostacolo.

Alcuni anni fa il concetto di còsagach si è affermato come una sorta di equivalente scozzese dell’hygge danese, il senso di accogliente appagamento domestico spesso messo in risalto dalle dure condizioni esterne. Ma non appena questo termine ha preso piede, i parlanti gaelici hanno protestato, affermando che la parola non evoca un senso di intimità quanto piuttosto un nascondiglio umido, come per esempio la tana muscosa di un animaletto. La controversia sul còsagach mi sembrava il microcosmo di una tensione più ampia tra varie visioni della Scozia, tra sentimentalismo commerciale – haggis e cornamuse, romanticismo alla Outlander e foto delle mucche su Instagram – e il Paese reale con la sua storia di povertà, clima rigido, sanguinose lotte civili e violente annessioni. Forse la morale è che certi tipi di natura selvaggia dovrebbero poter rimanere tali. Per dirla con Orwell, inaccessibili. E quando ci avventuriamo nella natura selvaggia, dobbiamo accettarne le condizioni: il vortice e la pioggia, le maree dell’oceano, il tempo sull’isola; i capricci della gioia e della rabbia di un bambino. Queste forze non sono fatte per vivere secondo i nostri desideri, ma esistono per sovrastarci e plasmarci. Non sono lì affinché noi le dominiamo, ma per trasformarci.
Il secondo giorno in barca ci ha portato alle Slate Islands: Belnahua, piena di case in rovina costruite per la comunità di minatori che un tempo abitava l’isola; il pittoresco villaggio di Ellenabeich, dove un chiosco di ostriche sulle palafitte serve anche scampi appena tolti dalle nasse e ciotole di Cullen skink, una cremosa zuppa di haddock affumicato; e infine Easdale, dove abbiamo visto spiagge scure con strati scintillanti di lastre d’ardesia, cave allagate con spettrali pozze di acqua stagnante e schiere di carretti in attesa accanto al minuscolo molo (qui non ci sono auto). Quando abbiamo raggiunto l’ultima isola – un luogo di grazia epica e bellezza selvaggia chiamato Eilean Mòr, desolato tranne per alcune rovine e un vecchio bothy (rifugio spartano) – lo skipper ci ha detto che in inverno porta ancora le pecore a pascolare lì. Siamo passati accanto alle rovine di una chiesa in pietra del XIII secolo cui mancava una parte del tetto ricoperto di erbacce. Mia figlia ha deciso che era una casa di pirati abbandonata, e quando ha visto una pozzanghera con l’acqua increspata dal vento, ha detto: «È qui che i pirati insegnavano ai loro figli a navigare!».

Il piacere di viaggiare con lei deriva anche dal vedere come la sua immaginazione trasforma il paesaggio e dall’osservare come mette radici raccontandosi storie su ciò che potrebbe essere accaduto in quei luoghi. E in effetti sui pirati non aveva neanche torto: Sandy ci ha raccontato che la chiesa alla fine divenne una locanda dove mercanti e contrabbandieri dormivano in un’intercapedine sopra il focolare. Nel dibattito sul concetto di còsagach, uno studioso di gaelico ha proposto una terza definizione del termine: non un nascondiglio, accogliente o umido che sia, ma piuttosto un “angolino caldo” come quello che un bambino potrebbe crearsi sotto le coperte o sotto i cuscini di un divano. Forse questo era il tipo di còsagach che avevamo trovato: gli spazi creati dall’immaginazione di mia figlia negli aspri paesaggi che esploravamo.
All’altra estremità di Eilean Mòr, dopo una croce celtica ricoperta di muschio che si erge come un faro sul punto più alto dell’isola, Sandy ci ha mostrato la Cave of Saint Cormac, una grotta con un’apertura alta poco più di 1,20 metri, dove nell’VIII secolo i monaci erano soliti ritirarsi per raccogliersi in meditazione. «Come se un’isola disabitata non fosse già abbastanza remota», ha commentato Sandy. «Dovevano rintanarsi in una minuscola grotta posta alla sua estremità» Inaccessibile. L’isola è avvolta da varie leggende, tra cui quella secondo la quale gli uomini che entrano nella grotta diventano sterili e quella per cui i Cavalieri Templari vi nascosero un tesoro nel Trecento. Un registro della chiesa locale del XVIII secolo sostiene che “non si poteva rubare nulla dall’isola che non potesse tornare indietro da sé”. L’antica croce celtica sarebbe stata rubata e riportata sull’isola dalla corrente dopo una tempesta. Non è difficile capire perché per secoli la gente venisse a Eilean Mòr per sentirsi più vicina al divino. Quest’isola impervia e sferzata dal vento è un “luogo sottile” dove il rumore del mondo esterno si affievolisce. Ma quando si viaggia con un bambino, non si può pretendere che stia in silenzio mentre ci si avvicina al sublime. Al contrario, si è chiamati ad ascoltare l’eco di qualcosa di sacro, nonostante il rumore che si porta con sé.

La Scozia per terra e per mare
Glenapp Castle
Questa dimora sontuosa è l’ideale per un soggiorno scozzese di lusso: 17 suite con arredi classici, afternoon tea, un giardino formale e un bosco di 44 ettari con sentieri per passeggiate. Il pacchetto Hebridean Sea Safari abbina due notti in hotel e un tour guidato in barca di tre giorni nelle Ebridi Interne con pernottamento in un glamping completamente attrezzato e pasti preparati da uno chef privato.
100 Princes Street
Chi visita la Scozia in genere arriva (e riparte) in aereo a Edimburgo. Questo nuovo hotel, ospitato in un ex club di esploratori, si trova in posizione ideale sulla principale via commerciale della città, di fronte ai Princes Street Gardens; molte camere offrono la vista sul Castello di Edimburgo. Con le tappezzerie in tartan, i bagni in marmo e la sala da pranzo ricca di atmosfera, è il luogo ideale per trattarsi bene al ritorno dall’ambiente selvaggio della costa.