Sempre più in alto tra le vette dell’Himalaya

Sempre più in alto tra le vette dell’Himalaya

Nella terra famosa per il Monte Everest, lussuosi lodge e nuovi percorsi di trekking stanno elevando l’esperienza dei visitatori e salvaguardando un’antica cultura.
Il Bauddhanath Stupa, il più grande monumento buddista in Nepal.
Il Bauddhanath Stupa, il più grande monumento buddista in Nepal. Foto di Carol Sachs

Una gelida mattina di ottobre ho volato, con una certa apprensione, su un piccolo aereo commerciale dalla capitale nepalese, Kathmandu, alla città di Lukla, spesso descritta come la porta d’accesso al Monte Everest. L’aeroporto Tenzing Hillary è la prima cosa che viene fuori quando si digita “aeroporto più pericoloso del mondo” su Google, soprattutto grazie alla sua pista incredibilmente corta, a forma di L. Ma quando abbiamo iniziato la discesa a Lukla, che si trova a un’altitudine di 2.850 metri, ero così incantata dalla mia prima vista dell’Himalaya che ho notato a malapena l’atterraggio.

È stata l’introduzione appropriata a un viaggio progettato per mettere in luce gli straordinari paesaggi montani del Nepal, le forze che ne minacciano il futuro e le persone che cercano nuovi modi per proteggerli. Il mio viaggio sarebbe iniziato con un trekking di otto giorni lungo un nuovo circuito dell’Everest Base Camp Trail, dormendo in lodge di lusso lungo il percorso. Poi sarei volata a ovest per soggiornare nel nuovo e attesissimo Shinta Mani Mustang, un hotel progettato da Bill Bensley, uno dei più grandi nomi del design alberghiero asiatico.

Gli abitanti del villaggio in abiti tradizionali eseguono una danza al Thame Lodge. Foto di Carol Sachs

Subito dopo l’atterraggio, il nostro gruppo – circa una dozzina di intrepidi viaggiatori internazionali di mezza età – ha passeggiato lungo il viale principale di Lukla. Migliaia di bandiere di preghiera colorate erano appese in alto e ogni vetrina sembrava essere un caffè o un negozio di attrezzatura da trekking e souvenir. Abbiamo fatto una breve sosta al Lukla Lodge, un piccolo hotel con le persiane verde menta. Mentre sorseggiavamo tè al latte aromatizzato al cardamomo sulla terrazza, Namgyal Sherpa, la nostra guida per il viaggio, ci ha dato una panoramica dei posti dove saremmo stati.

Namgyal e la sua famiglia sono i proprietari del Mountain Lodges of Nepal, un gruppo di oltre una dozzina di piccoli hotel, tra cui quello in cui ci trovavamo (le attività della famiglia includono anche tour operator nepalesi, delle compagnie di spedizione e il trasporto aereo regionale). «Questo lodge è stato il primo costruito da mio padre, ventiquattro anni fa», ha detto Namgyal. Suo padre, Sonam Sherpa, è un famoso alpinista e organizzatore di spedizioni che ha scalato alcune delle vette più iconiche del mondo, tra cui il Monte Bianco e il Kilimanjaro. Ha creato i rifugi nella speranza di portare nuove fonti di reddito alla sua comunità.

La casa degli Sherpa

Nel 1953, l’esploratore neozelandese Edmund Hillary e il suo compagno sherpa, Tenzing Norgay, sono diventati famosi per essere stati i “primi” a scalare l’Everest. Ma gli Sherpa, un gruppo etnico originario del Tibet, vivevano e scalavano da secoli le alte vette dell’Himalaya. Oggi, la gente locale è così spesso impiegata per aiutare gli scalatori che la parola Sherpa ha acquisito il significato di qualcuno che porta lo zaino di qualcun altro (ed è anche comune tra gli Sherpa assumere questa parola come cognome, come hanno fatto Namgyal e la sua famiglia). Ma all’interno del mondo dell’alpinismo è in corso un’importante riflessione e la storia della madre di Namgyal, Pasang Lhamu Sherpa, ne è stata una parte centrale.

Alla sua uscita negli Stati Uniti nel 2022, un documentario avvincente sulla sua vita di imprenditrice e attivista, Pasang: In the Shadow of Everest, ha attirato l’attenzione sul ruolo centrale che la comunità nativa ha svolto a lungo nell’industria. Il film racconta la storia di Pasang, che nel 1993 è stata la prima donna Sherpa a raggiungere la vetta della montagna, per poi morire tragicamente in una tempesta durante la discesa. «Mia madre stava combattendo una doppia battaglia», mi ha detto Namgyal. «Per le donne e per gli Sherpa. Si chiedeva: ‘Perché non possiamo fare di più che portare i bagagli alla gente?’» Ora Namgyal onora la memoria di Pasang creando esperienze che aiutano i viaggiatori a confrontarsi con la gente e la cultura locali, come il trekking che stavo per iniziare.

Un tradizionale baule nepalese nell’hotel. Foto di Carol Sachs

Ospitalità d’alta quota

Con l’aiuto del consulente di viaggio Jason Friedman, Namgyal e la sua famiglia stanno sviluppando nuovi itinerari che portano il necessario reddito turistico alle comunità meno esplorate del Nepal, offrendo allo stesso tempo percorsi più accessibili a chi non è un amante dell’escursionismo. Dopo aver indossato le scarpe da trekking al Lukla Lodge, ci siamo diretti verso la periferia della città, dove uno di questi sentieri ci avrebbe portato in direzione del Campo Base dell’Everest.

L’inizio del sentiero era segnato da un cancello di pietra con un tetto di piastrelle di ceramica rossa; su entrambi i lati c’erano busti identici di una donna Sherpa orgogliosa e sorridente. Namgyal non disse nulla mentre l’attraversavamo, ma notai che le statue erano di sua madre. Il nostro gruppo, insieme a Namgyal, Friedman, cinque portatori locali e una guida, doveva percorrere 17 miglia in otto giorni. All’inizio del nostro primo giorno di escursione, ognuno di noi camminava al proprio ritmo; alcuni da soli, altri chiacchierando in gruppo.

Abbiamo incrociato escursionisti con lo zaino in spalla, portatori di bagagli, yak dal pelo lungo con campanelli tintinnanti e ruote di preghiera cilindriche in legno intagliato che giravano al mio tocco, installate sulle facciate degli edifici. I muri mani, fatti di pietre e dipinti con mantra e simboli buddisti, costeggiavano spesso il nostro cammino. Il paesaggio intorno a noi era verde e collinare; su tutti i lati si stagliava l’Himalaya spolverato di bianco, immenso. Più di quattro ore dopo siamo arrivati al Phakding Lodge, un accogliente complesso di 18 camere che prende il nome dal villaggio circostante.

Sono stata felice di scambiare gli scarponi con le pantofole e di sorseggiare una tazza di acqua calda al limone prima della cena, servita in una sala da pranzo con soffitti imponenti e finestre che si affacciano su un’ansa del fiume Dudh Koshi. «I Mountain Lodge sono gli unici alloggi sul sentiero del Campo Base che offrono buon cibo, letti comodi e una doccia calda», mi ha detto Friedman. La mia camera, rivestita in legno locale, era accogliente e simile a una baita, e quando quella sera mi sono infilata con gratitudine nel letto, le lenzuola erano già calde, grazie a una coperta elettrica.

Una suite con vista sull’Himalaya. Foto di Carol Sachs

Il sentiero del silenzio

Il mattino seguente, invece di seguire il cammino principale, Namgyal e Friedman ci hanno guidato lungo una breve deviazione, attraverso il fiume e su per un pendio boscoso, in direzione del Monastero Rimijung, risalente al XVII secolo. Il sentiero si restringeva attraversando una foresta di pini, per poi passare accanto a piccole fattorie circondate da campi di mais, patate e grano. Gruppetti di bambini ridenti e con le guance rosse in uniforme ci salutavano durante il loro cammino verso la scuola: la nostra guida, Rinji Sherpa, mi ha spiegato che poteva durare anche un’ora.

Arrivando al Monastero Rimijung circa un’ora dopo, Namgyal ha salutato uno dei monaci residenti mentre osservavo la spettacolare facciata dell’edificio: rosso ruggine, con le finestre circondate da elaborate cornici arancioni intagliate e ruote della preghiera sul muro. Da una delle finestre proveniva il suono dei tamburi e dei corni tibetani, mentre i monaci novizi si esercitavano nella musica cerimoniale. Da un mucchio di azalee che si stavano essiccando e che in seguito sarebbero state ridotte in polvere e trasformate in incenso, proveniva un odore di miele.

In lontananza potevo vedere il Monte Thamserku, il cui profilo frastagliato era affilato come un coltello seghettato. Namgyal mi ha raccontato che suo padre ha rischiato la vita quando ha scalato la sua cima infida nel 1987. Tornato sano e salvo, Sonam chiamò l’azienda alpinistica di famiglia Thamserku Trekking in onore di quella vetta. Ora, a causa dei cambiamenti climatici, la mancanza di neve rende impossibile la scalata. I due giorni successivi sono trascorsi camminando verso nord per quasi 10 km, guadagnando lentamente quota, spesso seguendo (e attraversando) il fiume Dudh Koshi.

momo per il pranzo al monastero di Jhong. Foto di Carol Sachs

Il balcone sull’Everest

Abbiamo incrociato pony al pascolo e altri muri mani in pietra, e un giorno ci siamo seduti a mangiare momo, i ravioli nepalesi, in un caffè all’aperto. Entrando nel villaggio di Namche Bazaar, un’antica stazione commerciale situata a un’altitudine di circa 3.474 metri, ci è sembrato di arrivare nel paradiso dei backpacker himalayani: c’erano negozi pieni di attrezzature, pub irlandesi e caffè che vendevano pancake alla banana e birre artigianali. Soprattutto durante la “stagione dell’Everest” – una finestra di due mesi ad aprile e maggio in cui gli scalatori si riversano sulla montagna – la città è piena di viaggiatori che si rilassano, si acclimatano all’aria rarefatta e aspettano il momento migliore per iniziare la loro scalata.

Sosta per il pranzo durante la camminata da Namche Bazaar a Thame. Foto di Carol Sachs

Ogni anno, circa 800 speranzosi scalatori e le loro squadre di supporto tentano di raggiungere la vetta famosa, oltre ai 30mila che percorrono il sentiero del Campo Base dell’Everest. Lungo circa 129 chilometri, questo percorso ad anello inizia a Lukla e raggiunge i 5.364 metri del Campo Base; la maggior parte delle persone impiega circa due settimane per completarlo. «Tutti si affrettano a percorrere il sentiero, sforzandosi di raggiungere il luogo successivo entro una certa ora, fermandosi a malapena a osservare i villaggi che attraversano», ha detto Namgyal. «Vogliamo che le persone rallentino, sperimentino la cultura locale e si godano la bellezza delle montagne».

Monaci buddisti al monastero di Jharkot. Foto di Carol Sachs

Thame: l’altra via dell’Everest


Il giorno successivo è stato il più difficile per me; con poco fiato per l’altitudine, ho camminato lentamente. Ma è stato anche di gran lunga il tratto più spettacolare del percorso. Mentre gli altri escursionisti si dirigevano a est verso il Campo Base dell’Everest, noi andavamo a ovest in direzione del villaggio di Thame, per l’unico motivo che era la strada meno battuta e, secondo Friedman e Namgyal, eccezionalmente bella. Avevano ragione: il sentiero serpeggiava lungo vallate spalleggiate da cime maestose, di tanto in tanto passava accanto a yak che ruminavano fiori selvatici ed erba, attraversava fiumi impetuosi e correva attraverso piccoli villaggi. Per tutto il tempo non abbiamo incontrato nessun altro viaggiatore.

Dopo aver attraversato la gola di un fiume su un lungo ponte sospeso e aver risalito un altro ripido pendio, girata una curva ho trovato un paesaggio completamente diverso. Il terreno aperto e roccioso della montagna era stato addolcito da cespugli di rododendri e da un ruscello azzurro ghiaccio, coperto in alcuni punti da una nebbia avvolgente. Attraversando la porta della città di Thame, imbiancata e a forma di pagoda, ho visto campi verdi attraversati da muri di pietra, con cavalli al pascolo.

Abbiamo presto raggiunto il Thame Lodge, con 18 camere. Era stata una lunga giornata, così quando siamo entrati nel salone, decorato con murales dai colori vivaci, sono crollata su un divano e ho sorseggiato una tazza calda di masala chai. Quella sera, nella sala da pranzo, le donne locali si sono esibite in canti e danze tradizionali di benvenuto. Namgyal mi ha detto che era un peccato che il lodge, uno dei suoi preferiti, fosse quasi sempre vuoto perché pochi viaggiatori ci arrivano. «Questo è il tipo di posto che vogliamo far conoscere ai visitatori», ha detto.

Un pranzo all’aperto al lago Chema organizzato da Shinta Mani Mustang. Foto di Carol Sachs

Nel cuore selvaggio del Mustang

Dopo una giornata di riposo a Thame, per Namgyal e me è arrivato il momento di salutare il gruppo e dirigerci verso lo Shinta Mani Mustang, il nuovo sontuoso hotel della sua famiglia nella remota regione nepalese del Mustang, un tempo Regno di Lo-Mustang, al confine con il Tibet. Per arrivarci, siamo tornati a Kathmandu in elicottero, abbiamo preso un volo per la città di Pokhara, nella parte centrale del Paese, poi siamo saliti su un altro elicottero fino al villaggio di Jomsom, il punto di ingresso all’Alto Mustang. Mentre volavamo verso nord, il paesaggio passava dal verde a sottili sfumature di grigio. In basso, potevo vedere un fiume stretto che serpeggiava in un’ampia gola.

Fiancheggiata da due catene montuose – il Dhaulagiri e l’Annapurna – la gola del Kali Gandaki è un paesaggio drammaticamente brullo che a volte raggiunge oltre 4,8 km di larghezza. Milioni di anni fa, questa terra arida, oggi punteggiata di cefalopodi fossili, era un immenso mare. Siamo atterrati proprio di fronte allo Shinta Mani e abbiamo attraversato un cancello di pietra per entrare nel cortile. A prima vista la struttura a forma di ferro di cavallo e a due piani assomigliava a uno dei tanti monasteri buddisti tibetani che avevamo visto durante il nostro trekking.

Ma all’interno, grazie all’occhio creativo del designer Bill Bensley, il lodge sembra un palazzo colorato ed elegante. Ci sono ampi spazi pubblici arredati con un mix di oggetti d’antiquariato regionale, paralumi con finiture in pelo di yak arancione e giallo e dipinti di paesaggi di Robert Powell, artista australiano della metà del XX secolo che ha vissuto e lavorato in Nepal per tre decenni.

Pecore al pascolo vicino al lodge Shinta Mani Mustang. Foto di Carol Sachs

Divani profondi e sentieri sacri

La mia camera era dotata di un minibar rivestito in pelle e di un tappeto con stampa tigrata sul pavimento lucido e dipinto di nero. La pesante coperta sul letto, ricamata con una sfilata di specie animali locali, era fatta di feltro proveniente da un laboratorio nepalese che fornisce coperte di cashmere a Hermès. Ma nessuna di queste ricchezze poteva competere con la vista del Nilgiri Himal, le tre cime principali del massiccio dell’Annapurna che brillavano al sole attraverso la mia finestra a tutta altezza.

Anche se ero tentata di farmi coccolare nella spa o di passare tutto il giorno a leggere su uno dei profondi divani della hall, mi sono iscritta a quante più avventure guidate dell’hotel possibile. Un pomeriggio, Namgyal e io abbiamo visitato Marpha, un villaggio splendidamente conservato e circondato da meleti a mezz’ora di guida. Il suo stretto viale principale, pavimentato con lastre di pietra, è fiancheggiato da case tradizionali dipinte di bianco con tetti di fango e cataste di legna da ardere ai lati (il legname è ancora un segno di ricchezza nella regione, perché così difficile da trovare).

Il giorno successivo ho camminato fino a un lago alpino, che brillava sotto il sole di mezzogiorno, e ho trovato una bottiglia di vino rosé e un tavolo apparecchiato per il pranzo. Un altro giorno, ho fatto un’ora di strada a nord di Jomsom per visitare i siti religiosi, tra cui Muktinath, un tempio per indù e buddisti dove l’acqua santa sgorga da 108 statue dorate a forma di testa di mucca.

Il Thame Lodge, un hotel alla base del monte Sumdur, vicino all’Everest. Foto di Carol Sachs

Queste reliquie testimoniano il passato dorato del Mustang. Alla fine del XIV secolo, il re guerriero tibetano Amepal unificò le terre lungo il fiume Kali Gandaki. Nacque così il Regno di Lo-Mustang. L’area ospitava un importante tratto della Via della Seta; la zona fiorì e divenne un ricco dominio grazie agli studiosi buddisti che la percorrevano e ai mercanti che commerciavano sale e lana tibetani (in dialetto tibetano, una delle traduzioni della parola Mustang è “pianure del desiderio”). Ma alla fine del XVIII secolo, il regno fu assorbito dall’odierno Nepal come principato.

Negli anni Cinquanta, quando la Cina invase il Tibet, il confine tra Nepal e Tibet era pieno di tensioni e i viaggi attraverso la regione erano limitati. Il Mustang, colto nel mezzo, fu improvvisamente tagliato fuori dal mondo: i suoi tesori buddisti e i suoi siti spirituali furono in gran parte protetti, ma rimasero quasi del tutto sconosciuti. Nella regione così remota, le pratiche e le credenze animistiche prosperano ancora.

Namgyal Sherpa, la cui famiglia è proprietaria del Mountain Lodges of Nepal. Foto di Carol Sachs

Oltre lo zaino: la sfida degli Sherpa

Nel mio ultimo pomeriggio, ho incontrato Tsewang Gyurme Gurung, uno specialista di medicina tradizionale tibetana di undicesima generazione, consulente della spa di Shinta Mani. Il carismatico trentottenne, che potrebbe guadagnare molto di più spostandosi da un centro benessere all’altro come guru della salute tibetana, ha scelto di rimanere nella sua città natale, Jomsom, curando gli abitanti dei villaggi locali che a volte lo pagano con uova o grano saraceno. «Ho delle responsabilità», ha detto.

«Non sono solo un medico, ma anche un agricoltore che si prende cura della terra». È stato il rapporto di Gurung con Namgyal a convincerlo a dedicare parte del suo tempo alla spa del resort, offrendo consulti agli ospiti e trattamenti tradizionali. La mia ultima cena allo Shinta Mani Mustang è stata un pasto a più portate a base di momo: uno ripieno di funghi, uno con peperoncino e formaggio locale e, come dessert, uno al cioccolato.

La hall dello Shinta Mani Mustang. Foto di Carol Sachs

Mentre mangiavamo, Namgyal mi ha detto che, anche se nepalese, è spesso colto di sorpresa davanti alla bellezza e saggezza che incontra in questa regione. Aprendo Shinta Mani e organizzando viaggi come il mio, Namgyal e la sua famiglia stanno lavorando affinché i viaggiatori di lusso arrivino in questa parte remota del Paese e contribuiscano a dare impulso all’economia locale. Ma Namgyal non si concentra tanto sul singolo hotel quanto sulla crescita dell’intera comunità. «Non si tratta solo di raggiungere la meta», ha detto. «Significa aiutare anche gli altri ad arrivarci».

Quella sera, mentre bevevo un sidro di mele locale mescolato con succo di limone e zenzero tritato davanti al fuoco nel patio, ho pensato alla madre di Namgyal e alla sua scalata dell’Everest. Aveva intrapreso quel trekking anche per dimostrare agli Sherpa che il loro futuro poteva andare oltre il trasporto degli zaini dei viaggiatori. Ho pensato a quanto sarebbe orgogliosa di Namgyal e del resto della sua famiglia. Stanno mostrando al mondo quanto in alto possono salire gli Sherpa, portando con sé alcuni fortunati viaggiatori.

Dove dormire

Mountain Lodges of Nepal

La famiglia di Namgyal Sherpa organizza trekking di 11 giorni lungo nuovi percorsi che includono l’alloggio nei lodge ristrutturati dalla famiglia (tra cui Namche, Phakding e Thame), i pasti e un giro in elicottero fino al punto panoramico di Kala Pattar per ammirare il Monte Everest.

Shinta Mani Mustang

Questo rifugio di 29 suite con trattamento all-inclusive nella regione del Mustang, in Nepal, attira gli avventurieri di lusso con tariffe che includono trattamenti termali ed escursioni nei villaggi vicini. – Samantha Falewée

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